Quando si parla di voto europeo, raramente al cittadino brucia la passione politica. Per la stragrande maggioranza degli elettori del vecchio continente le elezioni del Parlamento di Bruxelles rappresentano una sorta di lontana eco, un rombo cupo che non riesce a far tremare le certezze domestiche. È un’usanza ormai decennale: mentre i commissari partono per la campagna a reti unificate, ad arringare le piazze virtuali con indirizzi programmatici e promesse di stabilità, il popolo pensa ad altro. Pensa ai salari stagnanti, ai mutui che soffocano le famiglie, alla benzina che non finisce mai di aumentare. E vota di conseguenza: con la pancia, con il portafoglio, con la rabbia di chi si sente tradito dalle istituzioni.
In Germania, ad esempio, ad Angela Merkel è subentrato Olaf Scholz, ma l’aria è sempre la stessa. La coalizione semaforo, con Verdi e Liberali a tenere le redini del carro, sta mostrando tutte le sue fragilità. E mentre Scholz si rifugia nei toni pacati del “Cancelliere della pace”, i suoi alleati vanno già all’attacco sulla crisi dei migranti, provando a ricucire uno strappo che rischia di diventare un buco nero per la maggioranza.
Sono le questioni interne le protagoniste di una campagna elettorale che sembra interessarsi ben poco all’Ue
Anche in Francia l’inquilino dell’Eliseo ha ben altri grattacapi oltre il voto di Bruxelles. Emmanuel Macron è impantanato in un mandato a dir poco tormentato, tra proteste di piazza e conti pubblici fuori controllo. E se un tempo sperava di potersi fregiare del blasone di leader dell’Ue, oggi arranca nella ricerca di una qualche legittimità. Anche perché in casa propria gli cresce un’insidia sempre più invadente: Marine Le Pen potrebbe cedere la scena al giovane Jordan Bardella, ma il rischio di un’affermazione del fronte populista è più concreto che mai.
In Spagna Pedro Sánchez si avventura in questa tornata con un fardello ben più ingombrante di un voto europeo. Dopo aver approvato un’amnistia per i separatisti catalani in grado di far stropicciare gli occhi persino ai più smaliziati analisti, il premier socialista si ritrova in una posizione per lui inedita: bersaglio polemico non solo delle destre madrilene, ma anche di una parte importante della sua stessa base elettorale. In Bulgaria domina la scena il magnate e politico Delyan Peevski, già sanzionato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. A Cipro il partito populista National Popular Front (ELAM) sta guadagnando terreno parlando di “sostituzione etnica”.
I temi? Difesa dei confini e dei privilegi fiscali. E c’è anche la “sostituzione etnica”
Poi ci sono le difficoltà economiche locali che ricorrono come un’ossessione in queste consultazioni. Perfino in un piccolo gioiello democratico come il Lussemburgo, il dibattito è ormai diventato man mano una guerriglia senza esclusione di colpi sul paradiso fiscale di casa. Con l’ago della bilancia Nicolas Schmit, spitzenkandidat del Partito Operaio Socialista, che gioca un difficile ricatto: mantenere il diritto di veto in materia fiscale, che gli eurocrati di Bruxelles vogliono eliminare.
Dalla Scandinavia ai Balcani, insomma, il gran fattore delle elezioni europee sembra essere il dibattito nazionale. A Helsinki il fronte euro-scettico della Finlandia aizza la folla con slogan anti-migranti, nell’estremo tentativo di convincere gli elettori a votare con la pancia e non con la ragione. Mentre la piccola Lettonia ribolle in un dibattito dalle venature identitarie, con il fronte progressista accusato di aver ceduto alle lusinghe delle minoranze russofone. Eccola qui, l’Europa di Maastricht e di Schengen: un cantiere aperto, un caleidoscopio di rivendicazioni e di aspirazioni. Un cantiere dai ritmi convulsi, segnati dalle contingenze locali più che da battaglie dall’ampio respiro.