Francesco Menditto, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli. Già componente del Csm, per molti anni ha svolto funzioni di presidente di uno dei collegi della sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione del Tribunale di Napoli. In questi giorni ha avuto grande attenzione mediatica nazionale la sua proposta di istituire in Italia il reato di violenza domestica.
Procuratore Menditto, in commissione di inchiesta sul Femminicidio, ha portato l’attenzione sulle donne vittime di violenza domestica. È un fenomeno di facile individuazione? Quali sono i segnali che lo rendono riconoscibile?
“La violenza ai danni delle donne è un fenomeno criminale “strutturale”. Non è una mia idea, ma è scritto nelle “Leggi” internazionali che sono state firmate e attuate dall’Italia: la Convenzione di Istanbul e la Direttiva dell’Unione Europea del 2024 intitolate espressamente “sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica”. Si dice spesso: “ma esiste anche la violenza delle donne ai danni degli uomini”; certo, anche questa va perseguita, ma i numeri del ministero degli Interni dicono che questi reati (maltrattamenti, stalking, violenza sessuale) sono commessi nell’80% dei casi da uomini ai danni delle donne. L’Istat calcola nel 2022, nell’ambito di relazioni, 6 uomini uccisi da donne e 106 donne uccise da uomini. Insomma, i numeri non hanno i pregiudizi e gli stereotipi di cui tutti siamo vittima e che ci impediscono di riconoscere la violenza ai danni delle donne. La “nostra” cultura, formata da tempo immemorabile, comporta che è normale discriminare una donna e non riconoscerla come persona con il diritto di scegliere senza pressioni sociali e ambientali. Un esempio: quanti amici e familiari dicono a donne vittime che si confidano “non denunciare, non separarti per il bene dei tuoi figli”; ma i figli come crescono in un clima di violenza?”
Quali sono i segnali che lo rendono riconoscibile?
“Si tratta dei “fattori di rischio”. Sul sito della Procura di Tivoli vi è un formulario che li descrive grazie al lavoro delle dirigenti psicologhe che lavorano in Procura e alla Prof. Elvira Reale di Napoli. Oltre alle aggressioni fisiche, alcuni esempi: mettere le mani al collo, minaccia o aggressione con arma (anche un coltello da cucina), la minaccia di arrecare danno ai figli o di sottrarli, il partner (o ex partner) che minaccia il suicidio, la minaccia di azioni vendicative e offensive (compreso il revenge porn e l’uso dei social), il controllo ossessivo. Vorrei dire alle ragazze: se il vostro partner vuole controllare i vostri spostamenti con l’app (o con selfie che riprendono dove siete) non è per amore ma perché non riconosce la vostra libertà e l’essere persone; se vi dà uno schiaffo lasciatelo subito perché ce ne saranno altri, questa è violenza. Riconoscere i fattori di rischio consente di comprendere che c’è violenza e provare a intervenire subito ad esempio anche solo chiamando il numero gratuito nazionale antiviolenza 1522 ove rispondono operatrici specializzate che danno informazioni o consigli, oppure recarsi in un Centro anti Violenza o da un avvocato specializzato”.
A che punto è la legislazione italiana su questo tema e cosa sarebbe opportuno fare?
“Le leggi ci sono, occorre prima di tutto applicarle in tutti i luoghi e con la stessa efficacia, perciò occorre la formazione obbligatoria di tutti gli operatori. Se chi ascolta o visita una vittima tende a non crederle, a non darle fiducia, nessuna legge potrà interrompere la spirale della violenza. Naturalmente si può fare anche altro, ad esempio, introdurre il delitto di violenza domestica (fisica, psicologica ed economica) perché la violenza oggi è perseguita solo col delitto di maltrattamenti, difficile da dimostrare richiedendo plurime azioni sopraffattorie verso la vittima, con processi lunghi e complicati. Sarebbe utile prevedere il delitto di femminicidio che imporrebbe di riconoscere le ragioni dell’uccisione di una donna in quanto donna e, così, comprendere il fenomeno criminale; l’art. 416-bis c.p. (associazione di tipo mafioso) introdotto nel 1982, dopo le uccisioni di Pio La Torre e del Generale Della Chiesa, ha consentito di “nominare” la mafia e ha imposto di riconoscerne le sue caratteristiche, da allora il contrasto è di gran lunga migliorato”.
Quanto incide l’aspetto culturale sul contrasto alla violenza di genere? Molte donne che trovano il coraggio di denunciare spesso sono vittime una seconda volta (victim blaming).
“Bisogna riconoscere la violenza e per farlo occorre professionalità e capacità di superare i limiti che tutti abbiamo, frutto di pregiudizi e stereotipi; solo in questo ambito spesso si giudica non sulla base di fatti, come avviene quando è commesso un furto, una rapina, etc. Quando una donna denuncia i fatti sono filtrati dai nostri (pre)giudizi, se li riconosciamo evitiamo di inquinare le valutazioni altrimenti ci sarà quella che chiamiamo “vittimizzazione secondaria”, la donna è vittima di violenza e poi anche delle istituzioni che non le credono e non la proteggono. Alcune frasi e pensieri ricorrenti svelano i pregiudizi ai danni delle donne: “le denunce strumentali e/o false delle donne”, “ha esagerato”, “poteva urlare”, “vestita in quel modo ha provocato o se l’è cercata”. Altre tendono a giustificare l’autore: “poverino era stanco”, “ma era ubriaco non voleva farlo”. Sono frasi, espresse o pensate, che appartengono a tutti, giornalisti, operatori sanitari, avvocati, magistrati. A Tivoli abbiamo verificato che è solo uno stereotipo parlare di denunce strumentali in quanto abbiamo verificato che quelle presentate dagli uomini ai danni delle donne sono “archiviate” in misura molto maggiore di quelle delle donne (quelle delle donne 45% dei casi, inferiore alla percentuale relativa a ogni tipo di reato, quelle degli uomini 91%). Studi approfonditi hanno dimostrato che la vittima di violenza sessuale per paura è normale che non urli”.
Siamo a un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin che tanto ha impattato sull’opinione pubblica e che avrebbe dovuto essere uno “spartiacque”. Eppure, le donne uccise per mano di uomini crescono in numero. Il Codice Rosso è davvero sufficiente? Cosa non sta funzionando?
“I dati sulle misure adottate a protezione delle donne vittime di violenza dimostrano che abbiamo fatto passi avanti, anche il braccialetto elettronico, seppur con criticità che devono essere risolte, è molto utile perché la persona cui è applicato sa che in caso di avvicinamento non consentito sarà scoperto e arrestato. C’è molto da fare perché la violenza ai danni delle donne è diffusissima e il femminicidio ne è l’apice. Forze dell’ordine e Magistratura da sole possono bloccare i casi più eclatanti, occorre un’azione di lungo respiro, con un’educazione che incida su stereotipi e pregiudizi, azioni concrete per rimuovere le discriminazioni ai danni delle donne (quante, ancora oggi, lasciano il lavoro o rinunciano a progredire nella carriera per agevolare il loro partner). Non dimentichiamo che il Codice Rosso funziona a risorse invariate di forze dell’ordine e magistrati, occorrerebbe anche un loro incremento”.
Sempre più diffusi sono anche episodi di violenza e aggressività che vedono protagonisti gli adolescenti. Trova utili ed efficaci misure come il “Decreto Caivano”?
“Occorrono interventi di lungo respiro e che interessino tutto il territorio nazionale, a partire dalle tante periferie. Soprattutto interventi strutturali e duraturi”.
Da uomo “di giustizia” non posso non chiederle cosa pensa del clima che si è generato nel Paese in riferimento al ruolo della magistratura che è stato oggetto anche di attenzione oltreoceano da parte di Musk. C’è un attacco all’autonomia della magistratura?
“Sono iscritto all’Associazione Nazionale Magistrati e condivido parola per parola le dichiarazioni del presidente Santalucia. È un fatto che in presenza di provvedimenti adottati dai magistrati ci siano non critiche, sempre legittime, ma “attacchi” aspri. I provvedimenti si impugnano, si possono certamente criticare, ma non si possono denigrare la magistratura e i singoli magistrati alimentando un senso di sfiducia. Non è un caso se i nostri padri e le nostre madri (solo 21 su 559) costituenti hanno voluto una magistratura autonoma, indipendente e soggetta solo alle leggi a garanzia di tutti i cittadini”.