L'Editoriale

Vespa non accetta la quarantena. Il giornalista è lo spot vivente dell’Italia che se ne frega

Semmai qualcuno se ne fosse dimenticato, abbiamo appena ricordato a tutto il mondo quanto noi italiani sappiamo essere furbastri e indisciplinati. Le immagini dell’assalto alla stazione di Milano giusto in tempo per aggirare il divieto di lasciare la regione, oppure l’accaparramento di viveri ai supermercati, i locali della movida pieni nell’ultimo weekend e un generalizzato menefreghismo di fronte alle regole imposte per circoscrivere l’epidemia di Coronavirus ne sono una prova inconfutabile. L’egoismo e l’allergia alle norme di questi nostri connazionali non sono però congeniti, ma si sono sviluppati in un habitat che da sempre premia chi frega il prossimo, si attribuisce dei privilegi e poi li difende perché una volta ottenuti sono sacri e inviolabili.

Un habitat in cui è nata ed è ingrassata la Casta dei politici, il circoletto dei grandi prenditori a cui è stato permesso per decenni di privatizzare i profitti e socializzare le perdite, una élite giornalistica e culturale impermeabile a tutto ciò che non nasce per grazia ricevuta ed è per questo servile e genuflesso. In questo contesto, se c’è uno stereotipo assoluto di tanta destrezza nello stare a galla, nessuno può battere Bruno Vespa, uno spot vivente a tutti i modelli di cui l’Italia ha bisogno di liberarsi per diventare migliore: la riverenza alla politica, la conservazione, l’attitudine ad aggirare le regole. Ma andiamo per ordine.

Ieri il conduttore di Porta a Porta ha protestato contro i vertici Rai, adombrando l’ipotesi di un complotto perché gli si toglieva qualche puntata proprio mentre era attesa come ospite la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Il programma di cui parliamo, così giusto per ricordare, va in onda dal 1996 e già solo per questo è emblematico di una televisione rimasta uguale a se stessa mentre cambiava il mondo, nasceva Internet e milioni di persone andavano a informarsi sui social network, deluse da certi teatrini della politica, alla bisogna farciti di nani, cuochi e ballerine.

PADRONE. In quel salotto è passata tutta le prima, la seconda e la non numerabile attuale Repubblica, selezionata sulla base del potere temporale o della garanzia di non disturbare il manovratore, hai visto mai che a qualcuno scappasse qualche domanda scomoda o si provasse a incalzare veramente il potente di turno. Proprio con chi conta, d’altra parte, Vespa ha sempre candidamente ammesso una subalternità naturale, tanto da definire la Democrazia cristiana il suo “editore di riferimento” all’epoca in cui dirigeva il Tg1. Avete capito bene: non gli ascoltatori, il pubblico o chi gli pagava e gli paga ancora lo stipendio col canone Tv, ma “l’editore” era il partito di maggioranza in Parlamento.

Con questo lasciapassare – che generazioni di giornalisti hanno tradotto col proverbio “attacca l’asino dove vuole il padrone” (e ci saranno dei motivi per cui la nostra stampa è in coda a molte classifiche mondiali, e chi fa inchieste sui Palazzi come La Notizia e pochi altri è considerato un fastidio) – Vespa è rimasto sempre in sella, ottenendo corsie preferenziali che nessun altro ha avuto mai dal Servizio pubblico, producendo il suo programma e insieme scrivendo libri per la Mondadori, in palese conflitto d’interessi perché società editrice controllata dalla famiglia Berlusconi, naturalmente ospite fisso di Porta a Porta insieme ad altri esponenti di Forza Italia.

La storia professionale del conduttore e i successi di share della trasmissione in fin dei conti giustificavano la permanenza in video, ma a parte che non sapremo mai che altro poteva nascere se si fosse dato spazio ad altri professionisti del Servizio pubblico (e ce ne sono tanti bravissimi lasciati a far poco e niente) col regno ininterrotto di Vespa si è dato un altro insegnamento negativo a quell’Italia dei furbetti di cui dicevamo all’inizio. Quando lo Stato in semi-bancarotta mise un tetto allo stipendio dei suoi dipendenti, anche nelle istituzioni, il conduttore di Porta a Porta scrisse al Consiglio di amministrazione di Viale Mazzini per informarlo che quel programma non era giornalistico, ma di intrattenimento (o infotainment) e quindi a chi lo presentava andava applicata la deroga sui compensi, allo stesso modo degli artisti che vanno a cantare a Sanremo.

Ora, di fronte alla consacrazione di scorciatoie di questo genere, ci possiamo incazz… perché mezza Italia se ne frega dei governi, delle regole e dei virus? Se mostriamo per anni una pubblicità dove chi la sa più lunga vince, e gli consentiamo di acquisire privilegi tali da potersi permettere di sindacare quello che decidono i vertici della tivvù, manco fosse lui il padrone, cosa c’è di male se milioni di italiani se ne fregano delle zone gialle o rosse? Per questo, anche se il danno è fatto, questa è l’occasione per fare finalmente uno spot sociale, di quelli che vanno in onda con la prudenziale avvertenza “pubblicità progresso”: applichiamo anche a Vespa la legge Fornero, e lasciamogli il tempo di vedere dalla poltrona di casa una televisione diversa, meno ossequiosa col potere ma che magari aiuti a fare emergere un Paese migliore.