Un Paese che cade a pezzi come il nostro ha una sola chance: cambiare profondamente. Gli italiani l’hanno capito e hanno dato un consenso senza precedenti al premier che più di tutti ha saputo imporre parole chiave come riforme e rottamazione. La strada era sacrosanta e dopo un primo anno di queste riforme oggi il Paese può guardare avanti con più fiducia rispetto ai mesi disastrosi dei governi Monti e Letta. La crisi e il decadimento morale, prima ancora che materiale, ci obbligano però a procedere a tappe forzate e a fare riforme anche ruvide. Di spazio per una forte spinta riformista d’altronde ce n’è a volontà. Per questo non entusiasma la proposta di riforma della Rai, dove come prima cosa si dovevano tirare fuori i partiti dalla governance e invece si lascia la scelta di metà Cda al Parlamento e in più si assicura un posto fisso al sindacato interno. Un bel topolino venuto giù dalla montagna di Palazzo Chigi mentre i manager in sella una riforma vera la facevano sul serio, emettendo obbligazioni e così consentendo di smarcare Viale Mazzini dal tetto sugli stipendi. Una riforma buona già aggirata con i giochetti si sempre.
L'Editoriale