Il Consiglio europeo del 20 marzo ha certificato l’ennesima prova di ambiguità strategica dell’Unione europea. Da una parte, la volontà di rafforzare l’apparato militare del continente con un piano di investimenti da 800 miliardi di euro. Dall’altra, la necessità di dare al progetto una veste meno scomoda, tanto che si è deciso di cambiare il nome da “ReArm Europe” a “Readiness 2030” per non turbare le sensibilità politiche di alcuni Stati membri. Per la sostanza, ci si penserà più avanti. L’importante è il packaging.
Riarmo Ue, un piano con più dubbi che certezze
La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha incassato il via libera sul principio generale: più difesa, più investimenti, più incentivi all’industria militare europea. Ma al di là della retorica muscolare, i dettagli operativi restano sfuggenti. A frenare l’entusiasmo bellicista sono stati soprattutto i dubbi su come finanziare la nuova architettura militare. L’ipotesi di utilizzare eurobond è stata bocciata dai paesi più rigoristi, mentre la proposta di escludere le spese militari dal Patto di stabilità incontra resistenze. Meloni, dal canto suo, ha difeso la necessità di una “prudenza” sulla spesa, invocando il principio del “buy European” per garantire che i miliardi stanziati restino dentro i confini dell’industria bellica continentale.
La Francia di Macron e la Germania di Scholz hanno spinto per un’accelerazione, con Parigi pronta a far lievitare la spesa militare fino al 3,5% del Pil. Ma l’opposizione dell’Ungheria e le cautele della Spagna di Sánchez hanno imposto un rallentamento della tabella di marcia. L’obiettivo resta quello di creare un sistema di difesa europeo autonomo, soprattutto in vista di un possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca. Il vertice ha discusso anche di come strutturare una “Nato senza Stati Uniti”, segno che la paura di un’America isolazionista sta condizionando ogni decisione strategica.
Il nodo irrisolto della politica estera
Sullo sfondo, il vero problema resta l’assenza di una politica estera comune. Se l’Europa avesse una visione unitaria, la discussione sarebbe stata incentrata su come costruire una reale autonomia strategica, su quali investimenti privilegiare, su come strutturare un comando unitario in grado di affiancare la Nato senza essere subalterno agli Usa. Invece, la questione principale è stata il nome del piano: troppa enfasi sulla parola “riarmo” rischiava di irritare gli elettori, meglio un termine neutro come “prontezza”. Il dibattito, insomma, è stato più lessicale che sostanziale.
Anche sulle modalità di finanziamento il confronto si è impantanato. L’idea di finanziare il riarmo con nuovo debito comune non ha convinto tutti. Alcuni Stati membri, come la Germania, temono di esporsi troppo. L’Italia, invece, si è detta contraria agli eurobond per evitare squilibri nei conti pubblici, ma ha chiesto garanzie che gli investimenti finiscano nell’industria bellica europea e non in quella americana. Sullo sfondo, resta l’incognita Trump: un suo ritorno potrebbe cambiare le carte in tavola e costringere l’Europa a rivedere ancora una volta le proprie scelte.
Il grande assente nel dibattito è stato, ancora una volta, un vero pensiero strategico. L’Europa vuole armarsi, ma non sa bene come pagare il conto. Vuole essere indipendente, ma teme di scontentare Washington. Vuole mostrarsi compatta, ma i suoi governi si muovono in ordine sparso. E così, mentre il mondo si ridefinisce tra il decisionismo scomposto di Trump e l’aggressività di potenze come Russia e Cina, Bruxelles si impantana nelle parole. Alla fine, il Consiglio europeo ha prodotto un compromesso che rimanda le vere scelte a un secondo momento. C’è un piano, c’è una cifra, c’è una nuova etichetta rassicurante. Ma la politica estera resta, come sempre, un’altra cosa.