L'Editoriale

Meloni e la sindrome di Robespierre

Che fine fece Robespierre è noto. A Giorgia ne auguriamo una meno cruenta. Ma la narrazione del suo governo non promette bene

Meloni e la sindrome di Robespierre

Applausi scroscianti. Rivolti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando cita Norberto Bobbio davanti alla platea della Settimana sociale dei cattolici a Trieste.

“Le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità e uguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine e non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che possano diventare, a loro volta, maggioranze”.

Un avviso al governo Meloni, alla sua maggioranza e al mito dell’uomo/donna forte (e solo/sola) al comando, che procede da un anno e mezzo a colpi di decreti umiliando il Parlamento, diffondendo a reti (Rai e non solo) quasi unificate quella pretesa egemonia culturale ormai degenerata in occupazione continua di tutto il potere possibile.

Scriveva Gustave Le Bon nel 1895 (Psicologia delle folle) che “non appena un certo numero di esseri viventi sono riuniti… ricercano d’istinto l’autorità di un capo, di un trascinatore… La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone”. E ogni “opinione contraria” al capo “sembra errore o superstizione”.

Come accadde a Robespierre, “ipnotizzato dalle sue chimeriche idee, pronto ad impiegare metodi degni dell’Inquisizione per propagarle”. Che fine fece Robespierre è noto. A Giorgia ne auguriamo una meno cruenta. Ma la narrazione del suo governo non lascia presagire un lieto fine. Per lei, ma soprattutto per il Paese.