Non serviva la firma del Consiglio dei ministri per certificare il fallimento del Protocollo Albania messo in piedi e strenuamente sostenuto dal governo Meloni. Bastava guardare i centri vuoti di Shengjin e Gjader. Bastava ascoltare i giudici che ne hanno bloccato l’impiego. Bastava sommare i circa 800 milioni di euro già spesi per costruire l’ennesima propaganda. E invece è arrivato un decreto.
Un testo scarno, due articoletti, per trasformare quegli hub in Centri per i rimpatri (Cpr). Un modo elegante per dire che l’idea originaria – accogliere in Albania i richiedenti asilo salvati dalle navi italiane – è naufragata. Allora si cambia la destinazione d’uso: nei centri albanesi finiranno ora le persone a cui è stato negato l’asilo, in attesa del rimpatrio. Sempre che il Paese d’origine li voglia davvero indietro. Il governo lo chiama “adattamento funzionale”. In realtà è un disperato tentativo di salvare la faccia prima della sentenza della Corte di giustizia europea, che potrebbe rendere il tutto ancora più imbarazzante.
E così, mentre si promettono “zero costi aggiuntivi”, si tace che ogni migrante trasferito in Albania dovrà poi tornare in Italia per essere rimpatriato. Ad occhio, sembra un raddoppio dei costi travestito da efficienza. Nel frattempo il ministro Piantedosi assicura che non c’è nulla di snaturato. Ma anche questa è un’ammissione implicita: per il governo, i centri per l’accoglienza e quelli per il rimpatrio sono ormai intercambiabili. Basta rinchiudere qualcuno da qualche parte per dire che il piano funziona. Intanto l’opposizione grida allo spreco e alla propaganda.
Ma la premier Giorgia Meloni tira dritto. Come se bastasse cambiare un nome per cancellare un fallimento. Come se bastasse un decreto per convincere gli italiani che 800 milioni sono stati spesi bene. E come se bastasse spostare la vergogna altrove per non doverla più guardare in faccia. Anche il flop, in fondo, può essere trasformato in messinscena. Basta farlo sembrare una scelta.