Le piazze ieri erano piene, non solo di lavoratori e lavoratrici, ma di una rabbia che ha smesso di essere sussurro. Lo sciopero generale non è una giornata qualsiasi: è la dimostrazione che il popolo non è disposto ad accettare in silenzio tagli alla sanità, precarietà strutturale e salari indegni. Il governo Meloni, arroccato nella sua fortezza, risponde con il solito repertorio di propaganda e precettazioni, incapace di ascoltare il grido del Paese reale.
Landini parla di rivoltare il Paese come un guanto, e ha ragione. Ma non basta. La rivolta sociale deve diventare politica, perché se non coagula in azione rischia di restare solo sfogo. Ieri le opposizioni c’erano, è vero, e fanno bene a schierarsi al fianco delle piazze: il sostegno al diritto di sciopero è un atto necessario per difendere la Costituzione stessa. Ma è il momento di andare oltre.
La protesta non può restare confinata nelle strade. Deve farsi progetto, deve diventare una visione alternativa che rimetta al centro il lavoro, la giustizia sociale, la dignità di un futuro. Il governo scommette sulla stanchezza, sulla frammentazione, sulla rassegnazione. Non dargliela vinta.
Le piazze di ieri ci dicono che c’è un Paese pronto a cambiare. Sta alla politica il compito di trasformare questa energia in una nuova stagione di diritti e conquiste. Altrimenti, il guanto resterà vuoto. E alla politica non resterà che presidiare le urne sempre più vuote.