In un mondo che gira ormai al contrario, se c’è una merce che non manca è un buon motivo per protestare. Di ingiustizie, tradimenti e soprusi ce n’è ad ogni angolo. E denunciarli è segno di vitalità, di non rassegnazione. Ma se pur di scendere in piazza si arriva a manifestare contro obiettivi universali – come è senz’altro sfamare il mondo – ecco che allora la protesta scopre il suo lato debole. Anzi, debolissimo. Il fenomeno non è solo italiano. Anni di crisi economica hanno diffuso ovunque la cultura del non fare. Non fare l’alta velocità ferroviaria, non fare il Muos, non fare il Mose, non fare un tubo e dunque non fare l’Expo. Ora questa visione poteva avere un senso quasi dieci anni fa, quando l’Italia si diede da fare per aggiudicarsi l’evento. Poteva avere ancora qualche logica quando si decidevano le aree e si aprivano i cantieri. Ma ora che tutto è pronto e tra pochi giorni si potrà discutere su come aiutare il pianeta a crescere, che senso hanno i cortei, le manifestazioni e forse persino l’invasione dei black bloc? L’unico senso è l’affermazione del non fare. Un cupio dissolvi che dice tanto dei motivi per cui viviamo in una società decadente.
L'Editoriale