La morte di Ramy è una tragedia. Documentata negli attimi più cruenti dal video che ne mostra la fine, la notte del 24 novembre scorso, dopo la tentata fuga a bordo dello scooter guidato da un amico culminata nell’impatto fatale con una gazzella dei Carabinieri. E resa ancora più insopportabile dalle parole scambiate tra i militari impegnati nell’inseguimento. “Vaff… non è caduto”, “chiudilo, chiudilo… no, mer… non è caduto”. Chissà, magari dettate dalla concitazione del momento. Un’attenuante che sicuramente non meritano gli strepitii di certa politica, incapace di trattare con toni da stadio, perfino il dramma di una vita di 19 anni spezzata. Specialità della casa del centrodestra che ha già assolto i carabinieri coinvolti nella vicenda senza aspettare neppure l’esito delle indagini. Peraltro intralciate dal tentato depistaggio di cui sono accusati altri due carabinieri.
Ma se come ieri hanno sostenuto in coro autorevoli esponenti della maggioranza, “di fronte a una fuga così pericolosa” i militari “hanno fatto il proprio dovere” e “ciò che era necessario: inseguirli e tentare di fermarli”, sarà la magistratura a stabilirlo. Se il non detto è che in fondo Ramy se l’è cercata, ai campioni del garantismo à la carte non resta che ricordare che in Italia la pena di morte è stata abolita persino dal codice penale militare di guerra proprio dal primo governo Berlusconi nel 1994. Invitandoli ad appuntarsi le parole del padre di Ramy: “Quelli che ho visto nel video, uno, due, tre, sono carabinieri sbagliati. Ma ci sono anche i carabinieri veri. Non sono tutti uguali, e ho fiducia in quelli giusti”. Applausi.