Un primo risultato dell’escalation in Siria è il compattamento dell’asse russo-iraniano. Confermato dalla telefonata intercorsa ieri tra Vladimir Putin e Masoud Pezeshkian, che hanno ribadito il loro “supporto incondizionato” a Bashar al Assad. Tradotto: nonostante le difficoltà dei due Paesi alleati della Siria, la Russia sul fronte ucraino e l’Iran nella delicata crisi mediorientale e le relative tensioni con gli Usa, l’impegno a sostegno del regime siriano sarà commisurato alla minaccia dei rispettivi interessi. Quelli di Mosca, presente in Siria con alcune basi strategiche per l’accesso al Mediterraneo. E quelli di Teheran, in chiave anti-israeliana, che spaziano sull’asse che unisce il Paese di Assad ad Hezbollah in Libano.
Nello scacchiere si inserisce il doppio gioco della Turchia, membro della Nato, ma vicina alla Russia e sponsor dei ribelli in marcia verso Damasco, che dall’indebolimento di Assad conta di ottenere mano libera nella gestione della questione curda. Non potevano mancare le manovre degli Stati Uniti: da un lato, costringendo la Russia ad intervenire in Siria, gli Usa mirano ad indebolirne il fianco ucraino per spingere Putin a concedere qualcosa in più nelle future trattative di pace, quando arriverà il momento; dall’altro non si lasceranno sfuggire l’occasione di infliggere un colpo all’asse del male Iran-Siria-Hezbollah. E l’Europa? Come al solito non pervenuta. Eppure non è difficile ipotizzare che tra Gaza, il Libano e ora la Siria, sarà proprio il Vecchio Continente a pagare il prezzo più alto del prossimo e inevitabile esodo di profughi dall’intera regione.