Ci ha provato più volte il presidente francese Emmanuel Macron a convincere Vladimir Putin sullo stop alla guerra in Ucraina. Lo stesso ha fatto il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, che ha telefonato ripetutamente al numero uno del Cremlino per ottenere una tregua. Il premier britannico Boris Johnson, invece, ha parlato di un piano per fermare il conflitto e le ambizioni di Mosca. Per non tacere del primo ministro israeliano, Naftali Bennett, che sta provando a riannodare i fili del dialogo, facendo intravedere la luce in fondo al tunnel di bombe e distruzione. E il presidente del consiglio italiano, Mario Draghi, che fa? Non pervenuto. Nessun contatto con Putin, zero tentativi di far ripartire la diplomazia. Palazzo Chigi si è semplicemente accodato alle decisioni assunte altrove, ricoprendo il ruolo di spettatore.
Draghi si è semplicemente accodato alle decisioni assunte altrove, ricoprendo il ruolo di spettatore.
La strategia di Draghi è quella di totale appiattimento sulle posizioni degli Stati Uniti, con una fiducia cieca nei confronti di Joe Biden. Ma Washington non sta brillando per la capacità di portare avanti quel dialogo necessario per facilitare il percorso almeno verso un cessate-il-fuoco. E il problema della linea diplomatica diventa in taluni casi… di linea nel vero senso della parola. L’episodio più significativo è avvenuto nei giorni scorsi con la mancanza di connessione per intervenire a una tavola rotonda all’Eliseo, a cui partecipavano Macron, Scholz e la presidente della Commissione europea Von der Leyen.
Lo stesso Draghi, intervenendo alla Camera, ha cercato di minimizzare l’accaduto, di fronte alle richieste delle opposizioni, parlando appunto di problemi di linea. Una toppa peggiore del buco che resta agli atti. Certo, con Volodymyr Zelensky, il rapporto è migliorato dopo la gaffe sulla presunta fuga del presidente ucraino. La conversazione riparatoria ha funzionato e il numero uno di Kyiv ha ringraziato in varie occasioni l’Italia, che ha aderito alle sanzioni e garantito l’invio di armi all’Ucraina. Ma, al di là delle affermazioni di rito, il ruolo del governo di Roma continua a essere ancillare rispetto ad altri grandi Paesi Ue.
Così sul fronte diplomatico, l’unico ad agire è il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Certo, la Farnesina si muove d’intesa con la presidenza del Consiglio. E non potrebbe essere altrimenti. Tuttavia, è l’ex capo politico M5S a fare da propulsore in sede internazionale alla diplomazia e alle istanze italiane. Ha sentito in più occasioni il suo omologo ucraino, Dmytro Kuleba, garantendo il pieno sostegno da parte di Roma. E fin dall’inizio ha mostrato di voler prendere la situazione in mano.
Nei giorni del dibattito sulle sanzioni, e sui dubbi sull’estromissione della Russia dal sistema Swift, ha lanciato un chiaro monito ai partner occidentali: “L’Italia ha sempre votato in maniera compatta con gli altri Paesi membri le proposte della Commissione Ue”, ha scandito. Un modo per sgomberare il campo dalle ambiguità che erano state annotate nell’esecutivo.
Dopodiché il numero uno della Farnesina ha iniziato a fare la trottola, rimbalzando da Algeri, per stringere accordi necessari all’acquisto di gas (leggi l’articolo), a Doha, in Qatar, dove ha cercato una sponda tra i fornitori di gas. L’obiettivo? “Accelerare il processo di diversificazione energetica, una condizione fondamentale per la nostra stabilità”. Un attivismo prezioso, che certo non può portare a risultati miracolosi. Ma che almeno imprime un’accelerazione in risposta al compassato, se non bloccato, ritmo draghiano.