Per inquadrare la situazione basta un raccontare di quel 24 febbraio, quando i missili russi hanno cominciato a cadere sull’Ucraina (leggi tutti gli articoli sulla guerra), ripresi dai media di tutto il mondo, mentre l’agenzia di stampa di Stato in Ungheria (Mti) ha deciso di non usare la parola “guerra” ma discuteva vagamente di un’“operazione militare russa”, definizione molto vicina alla dichiarazione coniata dal Cremlino, “operazione militare speciale”.
Le elezioni in Ungheria rischiano di diventare il primo vero test elettorale in Europa di un amico decaduto di Putin
Zsuzsanna Wirth, giornalista del media investigativo Direkt36, che ha studiato come il governo ungherese controlla Mti, racconta che sono ben 431 le volte in cui l’agenzia ha utilizzato l’espressione orosz hadművelet (operazione militare russa). La parola “guerra” è stata sdoganata solo dopo le numerose critiche interne.
Basta questo per capire che Viktor Orbán si ritrova in un’equilibrio precario pericoloso. Con il voto del 3 aprile alle porte e con la sfida di scrollarsi di dosso l’etichetta di “più fedele alleato di Putin” in Europa di cui si è fregiato fino poche settimane fa. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina l’opposizione ungherese ha organizzato una manifestazione di fronte alla sede della Mtva (il gruppo di coordinamento dei 4 media pubblici ungheresi) chiedendo trasparenza nell’informazione. Pochi giorni dopo in un’altra manifestazione contro la guerra alcuni attivisti hanno protestato di fronte alla Banca internazionale investimenti, un’istituzione con radici sovietiche che ha aperto un quartier generale a Budapest nel 2019.
Nel frattempo Orbán si è ritrovato costretto a condannare l’invasione russa (chiamandola testualmente “azione militare”) rifiutandosi però di criticare personalmente Vladimir Putin. Del resto due giorni prima dell’invasione proprio l’Ungheria aveva avuto uno scontro con gli Stati membri dell’Unione europea dichiarandosi non pronta a sottoscrivere eventuali sanzioni contro la Russia perché il rappresentante dell’Ungheria aveva chiesto il tempo per ulteriori colloqui con Budapest.
“Consultarsi con la capitale è un pretesto per salvare la faccia nei confronti dell’Unione europea e per salvare il culo nei confronti della Russia”, commentò acido un diplomatico in quell’occasione. Dopo mezza giornata l’Ungheria si era allineata. L’Ungheria ha rifiutato anche di sostenere un divieto alle esportazioni russe di petrolio e gas, anche se non è certo la sola.
Anche Germania, Bulgaria e altri Stati membri dell’Unione europea che dipendono dai flussi di combustibili fossili russi si oppongono a un divieto immediato delle esportazioni di petrolio e gas. Parlando a decine di migliaia di sostenitori lo scorso martedì, Orbán ha affermato che l’Europa centrale è solo una “scacchiera” per le grandi potenze e se l’Ungheria non difende i suoi interessi, potrebbe facilmente cadere vittima della crisi.
Il trucco è sempre lo stesso: sventolare sovranismo per rivendicare il diritto all’egoismo. Con le elezioni alle porte il principale rivale di Orbán, Péter Márki-Zay, un conservatore sostenuto da sei partiti di opposizione, lo accusa di essere troppo accomodante nei confronti di Russia e Cina. “Abbiamo solo una scelta: dobbiamo scegliere l’Europa invece dell’est e la libertà invece dell’autoritarismo”, ha detto Marki-Zay in una manifestazione dell’opposizione. Le elezioni ungheresi rischiano di diventare il primo vero test elettorale in Europa di un amico decaduto di Putin. Vedremo.