Quando per la prima volta ha calcato il palcoscenico teatrale se l’è chiesto anche lui: “Che ci faccio qui? Domenico Iannacone, giornalista, autore e regista, vincitore per cinque volte del premio Ilaria Alpi, dal 2013 al 2018 ha condotto in seconda serata su Rai 3 “I dieci comandamenti”, dal 2019 in onda fino a maggio 2022 col programma d’inchieste “Che ci faccio qui”. Improvvisamente la trasmissione è sparita dai palinsesti, e dopo una montagna di proteste la Rai ha smentito di averla cancellata, e pertanto dovrebbe tornare l’anno prossimo. Intanto Iannacone continua i suoi spettacoli, in continuità con la narrazione televisiva che nel corso degli anni ha ottenuto ottimi riscontri di pubblico in tutta Italia.
Meglio il palcoscenico dei teatri o quello televisivo?
“L’idea è quella di infrangere la quarta parete, uscire dallo schermo che mi ha congelato. La televisione può impedirmi di andare in onda, il teatro invece non può farlo. Sul palco si rompono le barriere, si avvicinano le persone e si può narrare con libertà”.
Ci sono state forti polemiche per il programma estromesso dal palinsesto della Rai. Eppure il riconoscimento di qualità e audience era evidente…
“Credo che la tv abbia perso identità, è come se avesse smarrito l’orientamento. Chi la gestisce non ha evidentemente l’esigenza di mantenere il rapporto con i telespettatori attraverso programmi che, in tanti anni, hanno raccontato la società. Io, ad esempio, ho parlato dell’identità di genere più di dieci anni fa. Un argomento che all’epoca non passava in tv. Ho affrontato temi ambientali, legati alla mancanza di giustizia, ai diritti delle minoranze. Oggi c’è appiattimento sui talk, hanno rosicchiato spazi che appartenevano a reportage e, questo ha creato una distanza con il pubblico”.
La Rai l’ha più cercata?
“In questo periodo ci sono state interlocuzioni. Personalmente trovo assurdo che un programma identitario di una rete non venga più preso in considerazione. Non vorrei andare altrove, ho avuto altre proposte ma, non devo snaturare me stesso. Aspetto che la Rai mi dica di ricominciare a lavorare”.
In queste ore in Rai ci sono polemiche sulle ospitate ben pagate di Fabrizio Corona. Ma queste scorciatoie basta per recuperare lo share in calo di questo inizio stagione?
“Ma questo è un espediente, come molti altri. Si crea clamore ma, alla fine di quella roba lì rimane pochissimo. Le trasmissioni più che lo scoop dovrebbero cercare identità”.
Di fronte alle grandi crisi internazionali ma anche socio-culturali del nostro Paese l’informazione italiana è all’altezza del suo compito o è risucchiata essa stessa nella crisi?
“Viviamo una fase in cui la tv non sa essere libera e sganciata dalla politica. I programmi sono soggiogati da un’unica visione e questo è pericoloso perchè non si raccontano tutte le verità”.
Un altro punto del suo lavoro giornalistico è il linguaggio. Quanta ricerca serve per trovarne uno nuovo?
“Ho affinato un meccanismo che mi permetteva di essere empatico, ma quello lo sono per natura. Per questo la narrazione avanza con naturalezza. La ricerca serve, ma ancora di più serve non fare mai manipolazioni”.
Il tour nei teatri è sold out ovunque: dove sarà possibile vederla?
“Ho 25 date da Sud a Nord e questo mi fa capire che c’è sete di non spegnere la luce su “Che ci faccio qui”.