Una disfatta. Non ci sono alibi, non c’è appello: Enrico Letta ha confezionato una batosta storica per il Pd e ne deve rendere conto sia al Paese che ai suoi iscritti. Non è solo una questione di congresso di partito o di resa dei conti, qui siamo di fronte a una sconfitta che ha radici profonde, una sconfitta che certifica una campagna elettorale sbagliata su tutti i fronti.
Letta ha confezionato una batosta storica per il Pd e ne deve rendere conto sia al Paese che ai suoi iscritti
Si potrebbe ad esempio osservare come abbia fallito Carlo Cottarelli, sconfitto nella sua Cremona dalla pittoresca e pitonessa Daniela Santanchè: Cottarelli era, parole di Letta, “la punta di diamante” della coalizione. Non rendersi conto che un economista tiepido (e molto poco di sinistra) non avrebbe avuto nessuna connessione elettorale con gli elettori significa essere completamente estranei alle logiche sociali che si muovono nel Paese.
Un altro elemento significativo è la debacle di Luigi Di Maio e del suo (minuscolo) partito personale: in tutta la campagna elettorale anche l’elettore democratico più convinto non ha saputo spiegarsi che senso avesse imbarcarsi l’ex ministro degli Esteri con tutta la sua truppa. Dalle parti del Nazareno ripetevano di essere tranquilli, ci spiegavano che la candidatura di Di Maio fosse un “premio” per il suo senso di responsabilità nei confronti del governo Draghi e che il Paese avrebbe capito. Si sbagliavano.
Non sentire il Paese, questo continua a essere il grande problema di un partito che si porta il fardello della sua nomenclatura che nessuno vuole più vedere. Mentre Cottarelli perde contro Santanchè a Bologna Pierferdinando Casini vince per un soffio contro Vittorio Sgarbi: cosa altro serve? I punti politici da affrontare non sono pochi.
Il Pd ha parlato moltissimo in campagna elettorale di Resistenza (dipingendo Giorgia Meloni come concreto pericolo fascista) ma ha, nei fatti, scelto la desistenza nel momento in cui ha scelto di rinunciare all’alleanza con il Movimento 5 Stelle che avrebbe reso queste elezioni veramente competitive. Chiamare gli italiani al stingiamoci a coorte mentre non riesce a tenersi stretta un’alleanza costruita in mesi di lavoro è un bluff con pochi precedenti. Qualcuno potrebbe aver pensato che tra Conte e Renzi-Calenda il Partito democratico avesse deciso di accarezzare il suo lato liberale: fallito anche questo tentativo.
Il Pd alla fine si è ritrovato solo in coalizione con +Europa e Sinistra Italiana/Verdi con cui avrebbe veramente poco da spartire in caso di governo (l’ha scioccamente ribadito Letta in campagna elettorale) e così il blocco di liberazione nazionale alla fine era solo un semolino tiepido servito per cena.
Poi c’è l’agenda Draghi, ripetuta ossessivamente in campagna elettorale, che è stata pesata da queste elezioni: il premier più coccolato dalla stampa e dalla presunta intellighenzia riformista è una bolla che esiste solo negli editoriali e nei commenti di chi non ha a che fare con lavoro, bollette e via areale. Draghi nel Paese non esiste al di là delle prime pagine di certi giornali.
E chissà se Letta non rifletterà sul fatto che quello che voleva essere un partito con vocazione maggioritaria ha dovuto attaccarsi alle braghe di un capo di governo tecnico per guadagnare un po’ di credibilità. Il risultato alla fine è ai livelli di quello dell’odiato Renzi. Siamo alle solite, dalle parti del Pd la superiorità è solo sfoggiata e presunta. Gli elettori sono tutta un’altra storia.
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