Una sfida al Colle. Una vendetta consumata da Matteo Renzi nel giorno delle dimissioni annunciate e subito posticipate al prossimo Congresso del Pd. Solo dopo la conclusione della cruciale fase delle consultazioni che si celebreranno in una situazione di stallo parlamentare certificato dalle urne. E con il Pd posizionato all’opposizione, per Sergio Mattarella, che lo stesso Renzi scelse e fece eleggere al Colle, la capacità di manovra si riduce. Il segretario dem non ha mai perdonato all’inquilino del Quirinale la conclusione a scadenza naturale della legislatura appena conclusa.
Rapporti tesi – “Noi abbiamo compiuto errori: il principale è stato non capire che è stato un errore non votare in una delle due finestre del 2017 in cui si sarebbe potuta imporre una campagna sull’agenda europea”, dice l’ex premier nel discorso che precede le sue dimissioni in cui il grande assente è l’autocritica. Dopo la sconfitta al Referendum costituzionale del 2016, Renzi avrebbe voluto tornare al voto. Per sfruttare quel 40% incassato dal Sì e trasformarlo in un plebiscito in suo favore. Ma a guastare i piani del rottamatore, dal cilindro di Mattarella, saltò fuori il Governo guidato da Paolo Gentiloni. Fu l’inizio di un rapporto teso tra il Colle e l’ex premier. Fino alla recente goccia che ha fatto traboccare il vaso. La lista dei ministri 5 Stelle trasmessa a Mattarella da Luigi Di Maio e ricevuta dal capo dello Stato senza fare una piega. Lo sdoganamento istituzionale del Movimento di Grillo, agli occhi di Renzi, certificato dal capo dello Stato.
Resa dei conti – Non è un caso che ieri, dopo le dimissioni post datate rassegnate da Renzi, il primo a replicargli sia stato l’ex capogruppo al Senato, Luigi Zanda, considerato molto vicino a Mattarella. “Annunciare le dimissioni e insieme rinviarne l’operatività è impossibile da spiegare – ha tagliato corto -. Quando Veltroni e Bersani si sono dimessi lo hanno fatto e basta. Un minuto dopo non erano più segretari”. La resa dei conti nel Pd è già cominciata.