A 15 chilometri da Agadez, nel cuore del deserto nigerino, esiste un campo profughi dell’UNHCR che da anni raccoglie le vittime della geopolitica dei respingimenti. Non è un rifugio. È un limbo forzato, dove centinaia di persone richiedenti asilo sono abbandonate da quasi un decennio senza una prospettiva di reinsediamento. Donne incinte, bambini, anziani: tutti lasciati in condizioni disumane, senza cibo sufficiente, cure mediche adeguate, né accesso all’istruzione. Questo campo – sostenuto anche da fondi europei – non protegge. Contiene. Ammassa. Silenzia.
Lo denunciano venticinque organizzazioni della società civile internazionale in una lettera aperta inviata all’UNHCR, all’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani e ai Relatori speciali delle Nazioni Unite. Il documento chiede che si ponga fine all’intimidazione delle persone rifugiate, alla sospensione punitiva dei voucher alimentari, e che si garantisca il diritto alla protesta e al giusto processo per chi è stato arrestato. Ma soprattutto chiede che si smetta di legittimare – sotto la patina dell’assistenza umanitaria – le deportazioni illegali orchestrate dalla Tunisia e dall’Algeria, spesso con il silenzioso appoggio dell’Unione europea.
La protesta come unica via
Dal 2019, nel campo di Agadez si sono susseguite proteste, sit-in e marce nel deserto. Ogni volta, la risposta è stata la repressione. Nel 2020, dopo settimane di manifestazioni, la polizia è intervenuta con la forza, arrestando centinaia di persone. Alcuni rifugiati sono stati condannati dal tribunale, le strutture del campo incendiate. Nulla è cambiato, se non in peggio.
Nel 2024, oltre 30.000 persone sono state deportate dall’Algeria verso il Niger. Tra loro non solo cittadini nigerini, ma anche persone originarie del Sudan, dell’Eritrea, dell’Etiopia. Migranti costretti a marciare nel deserto fino al cosiddetto “Punto 0”, dove vengono lasciati senza acqua né assistenza. Alcuni di loro – dopo aver subito violenze, detenzioni arbitrarie e respingimenti multipli – finiscono nel campo di Agadez, in una spirale di deportazioni a catena che attraversa i confini maghrebini fino a spegnersi nel silenzio del Sahel.
L’esternalizzazione come sistema
Il caso del signor K. è emblematico: sgomberato con la forza a Tunisi, deportato al confine algerino, riesce a tornare nella capitale grazie all’intervento del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Ma viene nuovamente arrestato, deportato in Algeria e poi in Niger. Oggi si trova nel campo, prigioniero di un sistema che confonde l’esternalizzazione dei confini con la tutela dei diritti.
La responsabilità non è solo dei governi tunisini e algerini. La colpa è anche di chi, a Bruxelles e nelle capitali europee, finanzia questi dispositivi con la scusa di “salvare vite” e “cooperare per lo sviluppo”. In realtà si tratta di un outsourcing del disumano, dove il Niger – Paese in crisi economica e sotto embargo internazionale – diventa il tappeto sotto cui nascondere gli scarti dell’Europa fortezza.
Nel nome della “gestione” migratoria, si calpestano vite, si producono emergenze, si alimenta la disperazione. Intanto si tace. E si continua a finanziare. A fingere che i campi siano centri di accoglienza, che le deportazioni siano riammissioni, che la repressione sia dialogo.
Quella di Agadez non è un’anomalia. È il risultato coerente di una strategia politica che ha trasformato il diritto d’asilo in un problema da esternalizzare. E che ha trasformato la cooperazione internazionale in una complicità strutturale.