di Clemente Pistilli
Dimenticarsi un’imputata in carcere, privare una persona del diritto alla libertà garantito dalla Costituzione italiana, è una violazione grave per dei magistrati e da sanzionare. Inutile il ricorso fatto da una gip del Tribunale di Ancona e da un pm della Procura del capoluogo marchigiano contro la sentenza emessa nei loro confronti a dicembre dal Csm. La “punizione” è stata confermata, con un pronunciamento innovativo in materia, dalle sezioni unite della Corte di Cassazione.
La sanzione
Il caso riguarda una detenuta, arrestata il 22 aprile 2005, su ordine di carcerazione emesso quattro mesi prima, condannata in primo grado e in attesa del processo d’appello. Il difensore della donna, essendo scaduti i termini per la carcerazione preventiva, aveva chiesto per ben due volte la liberazione dell’imputata. Il pm di Ancona incaricato del caso si era però opposto, proponendo di metterla ai domiciliari, e la giudice per le indagini preliminari non aveva provveduto alla scarcerazione. Il caso è finito davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Il pm e la giudice si sono giustificati battendo sui vuoti nell’organico dell’ufficio giudiziario di Ancona, sulle carenze organizzative e infine sulla difficile situazione che stavano vivendo sul piano personale, la gip per essersi da poco separata e il pubblico ministero per aver perso il padre. Per il Csm tali argomenti potevano influire sull’entità della sanzione, ma non mandare assolti i due, ritenuti responsabili di un comportamento “inescusabile”. Il 4 dicembre scorso la sentenza emessa da Palazzo dei Marescialli ha così previsto per i due magistrati la sanzione dell’ammonimento, ritenendoli appunto responsabili di illecito disciplinare, per “grave violazione di legge, determinata da negligenza inescusabile”. Per il Consiglio superiore della magistratura aver privato la detenuta della libertà per 62 giorni in più del previsto è stata una grave omissione dei magistrati, in quanto ha “inciso sul diritto fondamentale della libertà personale” dell’imputata, ledendo il diritto costituzionalmente protetto di libertà”. La negligenza, poi, è stata considerata inescusabile ritenendo le carenze degli incolpati “macroscopiche”. “La mancata dovuta escarcerazione – hanno evidenziato da Palazzo dei Marescialli – era effetto di comportamenti omissivi di ambedue gli incolpati, che aveva violato il valore più alto garantito dalla Costituzione, quello della libertà personale”. Dire no per due volte alla richiesta legittima di libertà fatta da un’imputata, per il Csm è giustificabile soltanto ipotizzando che i magistrati incaricati del caso non abbiano proprio letto gli atti.
Il ricorso
La gip e il pm non si sono arresi e hanno presentato ricorso in Cassazione, ora rigettato dalle sezioni unite civili della Suprema Corte. Le “toghe” punite hanno ribadito quanto già sostenuto dinanzi al Consiglio superiore della magistratura, precisando che il procedimento penale a carico dell’imputata è complesso e tanto sul fascicolo quanto sui registri non era stato annotato il termine di custodia in carcere, errore questo non dei magistrati, ma determinato dalla generale organizzazione degli uffici. La giudice ha infine ripetuto che in quel periodo stava vivendo una situazione personale “assai grave”, relativa alla separazione dal marito, mentre il pubblico ministero ha ribadito che, sempre in quel periodo, era scosso dalla morte del padre. Giustificazioni che non hanno scalfito il provvedimento del Csm, avallato appieno dagli ermellini.
La bacchetta
“Ogni magistrato – hanno specificato i giudici nella sentenza – è tenuto a vigilare sul permanere delle condizioni cui la legge subordina la privazione della libertà personale dei soggetti da lui indagati, non rilevando, come esimenti di tali condotte violative di un dovere d’ufficio, la esistenza di situazioni personali o familiari, salvo la natura eccezionale di queste ultime circostanze che abbia impedito l’ordinario lavoro del magistrato”. Il messaggio è chiaro: mai più una persona priva della libertà anche un giorno in più di quanto previsto per legge.