Mentre i politici e l’immaginario collettivo sono distratti dall’elezione del Presidente della Repubblica, “l’obiettivo neoliberista di distruggere totalmente l’economia italiana avanza sempre più rapidamente”. È quanto scrive in un blog sul Fatto Quotidiano Paolo Maddalena, vice presidente emerito della Consulta, indicato dagli ex M5S di Alternativa come candidato al Quirinale (leggi l’articolo). “Apprendo – scrive Maddalena- che il Governo Draghi ha inserito nel decreto Fisco la possibilità di pareggiare i conti pubblici con i derivati, cioè con delle pure scommesse, la cui perdita, data sempre al 50%, finisce, come è ovvio, sulle spalle di tutti i cittadini, nelle sue varie articolazioni”.
NEL DETTAGLIO. Il decreto cui si fa riferimento è quello del 30 dicembre dello scorso anno “Direttive per l’attuazione delle operazioni finanziarie” (qui il testo). All’articolo 3 “Operazioni di gestione del debito pubblico” si stabilisce quanto segue: “Il Dipartimento del Tesoro, sulla base delle informazioni disponibili e delle condizioni di mercato, può effettuare operazioni di gestione del debito pubblico, ricorrendo anche a strumenti finanziari derivati. Tali operazioni, in funzione delle specifiche caratteristiche di ciascuna di esse, possono avere come obiettivo il contenimento del costo complessivo del debito, la protezione dai rischi di mercato e di rifinanziamento del debito, nonché l’efficiente funzionamento del mercato secondario dei titoli di Stato”.
Quando si parla di derivati il pensiero corre all’origine della grande crisi finanziaria esplosa il 15 settembre 2008 con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers. Ma il pensiero corre anche alle nostre banche, vedi il caso del Monte dei Paschi di Siena. Non solo. I derivati sono stati utilizzati, come vorrebbero fare i Migliori, anche nella gestione della finanza statale. Utilizzati inizialmente come strumenti utili a mitigare rischi di cambio e di tasso di interesse del mercato, i derivati finanziari – si legge sulla Treccani – si sono rivelati pericolosissimi nella gestione finanziaria pubblica italiana nel corso della crisi degli ultimi anni.
I PRECEDENTI FALLIMENTARI. L’uso dei derivati mirava a rimodulare i flussi d’interesse per contenere il deficit soprattutto attraverso l’allungamento delle scadenze del debito che, in presenza di elevati livelli di debito pubblico, consente di far fronte ai costi di eventuali impennate dei tassi di interesse ‘spalmandoli’ su un periodo più lungo. Questo meccanismo di protezione – spiega sempre la Treccani – ha una sua logica in fasi in cui i tassi di interesse sono a livelli bassissimi e si ipotizza il rischio di un loro rialzo improvviso.
Tuttavia, le caratteristiche della crisi del 2007, contraddistinta da un andamento dei tassi di mercato di segno opposto a quello previsto, hanno fatto emergere quanto fosse erronea tale valutazione spiazzando tutte le previsioni. Con la crisi si è creato un meccanismo che ha quasi prostrato finanziariamente l’Italia: l’aumento delle quotazioni dei derivati (in particolare i Cds, Credit default swaps), ha infatti provocato un aumento del costo sostenuto dallo Stato per tutelarsi dei rischi di mercato (soltanto nel 2013 la spesa per interessi collegata ai derivati è stata di circa 3 miliardi di euro). E ancora: se tra il 1997 e il 2005 i derivati hanno diminuito il deficit per un totale di 11,6 miliardi, nei 10 anni successivi – dal 2006 al 2016 – l’hanno aumentato di quasi 24 miliardi. Ma i Migliori intendono riprovarci: l’esperienza non paga evidentemente.