di Vittorio Pezzuto
Fanno festa gli avvocati, molto meno i malati. E più di un governatore inizia da qualche giorno a chiedersi preoccupato come venire a capo di una situazione che per molti versi appare irrisolvibile e che potrebbe far saltare definitivamente i conti della sua Regione.
Succede infatti che con la sentenza n. 186 dello scorso 3 luglio, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’impignorabilità dei beni delle Asl delle Regioni commissariate. Una decisione che rischia di produrre effetti esiziali nell’azione di risanamento del baratro debitorio nei conti sanitari di alcune regioni del centro-sud (4,9 miliardi nel Lazio, 2,3 miliardi in Campania, 1,1 miliardi in Puglia, 786 milioni in Sardegna, 632 milioni in Calabria, 592 milioni in Sicilia). Una voragine scavata negli anni e che ha generato veri e propri “mostri” nella gestione dei soldi pubblici. Perché altrimenti non possono essere definite quelle Asl che nel colpevole disinteresse generale perdevano quasi un milione di euro al giorno (sì, avete letto bene: al giorno) quasi che in questa parte d’Italia che è la culla del diritto, il diritto stesso si fosse sistemato così bene da essersi addormentato.
In assenza di interventi repressivi, utili ad arginare il fenomeno e a indurre comportamenti più responsabili nella gestione del denaro pubblico, nel 2008 il Governo Berlusconi era finalmente intervenuto commissariando la sanità di queste regioni, chiedendo l’approvazione di un Piano di rientro e di ristrutturazione dell’organizzazione sanitaria, creando una struttura centrale tra Ministero dell’Economia e delle Finanze e Ministero della Salute incaricata di vigilare e di rilasciare progressivamente quella parte di risorse finanziarie inizialmente bloccate in parallelo al miglioramento della situazione. Per “mettere in sicurezza” questa azione di risanamento, il Parlamento aveva poi approvato alcuni anni or sono una norma che concedeva all’azione commissariale il tempo necessario per riportare all’equilibrio operativo queste decine di Asl – sulla base del principio elementare ma disatteso del “tanto ricevi, tanto spendi” – senza che una parte delle risorse correnti venissero legittimamente aggredite dalle azioni giudiziarie dei creditori con pignoramenti e precetti.
È proprio questa disposizione (art. 1, comma 51 della legge n. 220/2010) che la Consulta ha adesso dichiarato incostituzionale. I giudici hanno così voluto evitare che, di proroga in proroga, diventassero immutabili le condizioni di natura eccezionale e di durata limitata che erano state fissate dal legislatore. Sta di fatto che gli effetti della sentenza sono a questo punto facilmente prevedibili: la corsa ai decreti ingiuntivi, il blocco dei fondi correnti, l’impossibilità di pagare e quindi l’inevitabile esplosione delle spese legali. Queste ultime ammontavano per ogni Asl a svariate decine di milioni l’anno: un salasso finanziario che ha fatto e continuerà a fare felici gli avvocati ma che al tempo stesso sottrae risorse importanti che invece dovrebbero essere impiegate nell’azione di riequilibrio dei conti.
Il caso della Asl di Salerno
Intendiamoci, a sostegno di questa pronuncia della Consulta – che arriva dopo la recente approvazione dei termini perentori per i pagamenti da parte di tutti gli uffici pubblici – vanno considerate le giuste ragioni dei creditori (aziende farmaceutiche e di dispositivi medici) che in un periodo di grave crisi economica dovevano attendere anche mille giorni prima di incassare quanto loro dovuto e che erano costretti a osservare impotenti e sempre più furiosi la burocratizzazione con cui è stata gestita in alcune Regioni la debitoria pregressa. Beninteso, gli esempi positivi non sono mancati. Basta guardare al sostanziale risanamento finanziario della Asl di Salerno che il governatore Caldoro due anni or sono aveva affidato alla “cura” del colonnello dei carabinieri Maurizio Bortoletti. Grazie a semplici ed efficaci misure – lotta agli sprechi, regolare pagamento delle spese correnti, accordo con i fornitori, ristrutturazione delle procedure organizzative e (udite, udite) inventario del magazzino – questi è riuscito a riportare in equilibrio operativo una delle Asl più indebitate d’Italia, senza per questo tagliare minimamente il livello delle prestazioni erogate ai cittadini. Ha semplicemente seguito una strategia rivoluzionaria: quella del buon senso, del buon padre di famiglia.
Esiti imprevedibili
Sì, ma adesso che fare? La crisi morde, la sentenza della Consulta pesa come un macigno e sembra difficile poter replicare ovunque il patto siglato a suo tempo dalla Asl di Salerno con tutte le associazioni datoriali: pagare regolarmente il corrente, dare certezze agli imprenditori-fornitori, mantenere gli impegni, condividere scadenze precise per rimborsare i debiti pregressi.
Nella sua sentenza del 3 luglio, la Consulta ha evidenziato come l’impignorabilità dei beni delle Asl non poteva giustificarsi con l’essere «strumentale ad assicurare la continuità della erogazione delle funzioni essenziali del servizio sanitario». E questo perché – sottolineano i giudici – resta comunque vigente la legge 18 marzo 1993 n. 67, che già assicura l’impignorabilità dei fondi a destinazione vincolata, essenziali ai fini della erogazione dei servizi sanitari (stipendi del personale, corresponsione delle competenze dei medici di medicina generale, assistenza farmaceutica e quant’altro necessario a garantire i livelli minimi di assistenza). Peccato però che proprio la sostanziale inapplicabilità di questa norma avesse costretto il ministro Tremonti a intervenire nel 2010 con la legge che i giudici hanno cassato. Un bel guazzabuglio, insomma. Che manderà a gambe all’aria i conti di molte Regioni ma renderà felicissimi gli avvocati delle Asl e quelli dei fornitori, pronti a mangiarsi centinaia di milioni in parcelle grazie a un contenzioso enorme e dagli esiti imprevedibili.