Vincenzo De Luca, governatore della Campania, tira ancora calci e lo fa centrando il generale Figliuolo impegnato a tempo pieno nel piano vaccinale. De Luca si ribella a Roma, come Spartaco a Capua, e dice che lui vaccinerà chi gli pare e piace e dice: “La Campania è stata una regione tra le più rigorose d’Italia, ma una cosa è il rigore altro è la stupidità. Ho appena finito di parlare con il commissario Figliuolo al quale ho detto che una volta completati gli ultra ottantenni e i fragili noi non intendiamo procedere per fasce di età. Dedicheremo la struttura pubblica a curare i fragili e le persone anziane ma lavoreremo anche sui settori economici perché se decidiamo di andare avanti solo per fasce di età, quando avremo finito le fasce di età l’economia italiana sarà morta”.
O’ Sceriffo contro il generale. Sui vaccini De Luca fa da sé
Insomma, sembra di sentire i due Mattei che non passa giorno che tuonano per le riaperture, sostituendosi agli scienziati e ai medici, e dimenticando che furono proprio le riaperture sconsiderate di settembre scorso a provocare la seconda ondata che ha sommerso l’Italia e il mondo. Non passa inosservato anche il fatto che la nuova esplicazione del De Luca pensiero si è avuta in perfetta sincronia con la manifestazione Io Apro dei ristoratori a Roma.
De Luca coscientemente o no sta creando un sentiero che presto diventerà una strada con i movimenti antagonisti una volta fomentati da Matteo Salvini, quando era all’opposizione ed ora rimasti di quasi esclusiva competenza di Giorgia Meloni che sta, dal canto suo legittimamente, perseguendo una ben precisa strategia politica che la porta ad insidiare da vicino Salvini. De Luca, tuttavia, è pur sempre un esponente di punta del Partito democratico e questo apre anche inquietanti squarci sul progetto di alleanza strategica tra il Movimento Cinque Stelle e i dem stessi. Rifiutare le indicazioni, certamente non vincolanti, ma pur sempre altamente simboliche del governo pone un problema allo stesso Pd.
Enrico Letta, lo abbiamo già scritto, non controlla il suo partito e la vicenda delle due capogruppo renziane lo dimostra. E se non controlla il partito non può usare come merce di scambio – ad esempio – Roberto Fico, presidente della Camera che il neo segretario vuole “scambiare” con Virginia Raggi a Roma.
La riforma del Titolo V
La disastrosa Riforma del Titolo V della Costituzione – che diede troppi poteri alle Regioni – fu uno dei peggiori atti politici voluti da un Centrosinistra in ambasce per l’avanzata regionale della Lega Nord. Nello specifico fu il premier Romano Prodi, nel suo primo governo, che avviò nel 1997 la riforma dell’articolo 117 della Costituzione istituendo una apposita Commissione bicamerale che produsse una proposta di legge durante il governo di Massimo D’Alema nel 1999, ma solo nel 2001 la legge fu approvata dal governo presieduto da Giuliano Amato.
Qualcuno si accorse che ci si stava cacciando in un impiccio, ma la maggioranza non vide il pericolo. Gianni Cuperlo (allora nei Ds) ebbe a dire in seguito: “Nel 2001 si riformò il Titolo V pensando di togliere voti alla Lega. Fu un errore e gli italiani lo hanno pagato caro”. Già prima della pandemia si era capito che tale riforma era stata pessima. Lo Stato centrale perdeva importanti competenze in molti campi, tra le quali la materia energetica ed infrastrutturale, tanto per fare un esempio, e si creava un caos normativo. Ma è stato proprio il Covid a mettere in luce il totale scoordinamento tra Stato centrale e Regioni in materia appunto sanitaria che era già stata “regionalizzata” ancor prima della riforma Prodi con la riforma Aniasi, poi rafforzata dalla riforma del 2001. In tempo di guerra e in tempo di pandemia le cose funzionano, evidentemente, alla rovescia e cioè solo una guida centrale forte può garantire quella uniformità di coordinamento e di azione che serve in tali emergenze.