Dovevano cambiare il mondo e invece Raggi e Appendino sulle due vicende più significative del loro primo anno da sindaco si sono mosse in perfetto stile Prima Repubblica. A Roma la prima cittadina eletta al grido di onestà onestà si prepara ad andare sotto processo per le nomine del fratello di un presunto corrotto come Raffaele Marra e di uno stranamente prodigo Salvatore Romeo, il sottoscrittore delle polizze vita per svariate migliaia di euro a favore proprio della Raggi. Per molto meno quei grillini che hanno fatto incetta di voti promettendo un’assoluta trasparenza avrebbero chiesto la fucilazione in piazza. Qui invece si fa finta di niente e il livello di assuefazione a un clima giacobino che vale però solo per gli altri si è visto alla conferenza stampa di ieri in Campidoglio, dove le tenere domande dei giornalisti sul lavoro svolto al giro di boa dei dodici mesi sono state applaudite manco fossimo a un comizio. A Torino invece a essere emblematica non è la disorganizzazione che ci ha fatto scappare il morto e più di mille feriti nella sera della mancata Champions in piazza San Carlo, ma la toppa messa sul problema, peggiore del buco.
La soluzione tirata fuori dal cilindro dell’amministrazione è stata infatti la solita norma proibizionista sull’uso di birra e altre bevande in strada. Saranno pure il nuovo, ma questi Cinque Stelle più che altro sembrano i nonni di chi può innovare sul serio questo Paese. Tolta di mezzo la presunzione di inimicizia per il Movimento, che su questo giornale ha sempre trovato ampio riconoscimento per le molte cose buone introdotte nella paludosa politica italiana, quello che emerge proprio dalle vicende della Capitale e di Torino è l’inadeguatezza delle strategie di fondo dei grillini.
L’onestà non basta – Al primo posto, dopo la sbandierata onestà – che è una precondizione e quindi non va considerata come discriminante con le altre proposte politiche – c’è una redistribuzione delle risorse economiche attraverso il reddito di cittadinanza. Il modello è semplice e acchiappa-consensi, tanto che da Renzi a Berlusconi, fino al Governo con il recentissimo reddito d’inclusione, hanno messo le vele al vento di questo regalo ai più poveri, a spese di chi già paga un’enormità di tasse. Un’aberrazione – l’ha definita per ultimo il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda – anche dal punto di vista dei valori, perché sempre secondo il ministro “è molto più facile dare un reddito che dare un lavoro”. Il reddito a tutti pensato dai Cinque Stelle è però una misura ideologica che risponde allo stesso criterio con cui si usava la spesa pubblica negli anni ‘80 e ‘90. Stiamo parlando di quell’assistenzialismo che non ha solo contribuito ad allargare il debito pubblico, ma ha instaurato in larghe fasce della popolazione la convinzione che lo Stato debba risolvere tutti i problemi, dare una casa a chi non ce l’ha, un lavoro (meglio se di nessuna fatica) e ogni tipo di servizi. Al di là del fatto che il reddito di cittadinanza costa molto e i pochi soldi che metterebbe in tasca ai bisognosi farebbero la fine degli ottanta euro distribuiti da Renzi (irrilevanti come abbiamo visto per far partire i consumi) è il messaggio devastante contro il merito e la necessità di darsi da fare che presenterebbe presto un conto salatissimo al Paese. Di decisamente deludente c’è poi la selezione della classe dirigente sul web e la disparità di trattamento tra figli e figliastri nel caso di grane giudiziarie degli amministratori. La Raggi verso un imbarazzante processo non si tocca mentre il sindaco di Parma Pizzarotti per una stupidagine è stata messa alla porta. Molti candidati, inoltre, hanno mostrato tutti i limiti della scelta attraverso primarie che vanno alla grande su Internet, ma poi quando c’è da affrontare la vita reale è tutta un’altra cosa. Problemi che chi guida il Movimento percepisce perfettamente, insieme alla consapevolezza che fare politica significa fare anche accordi con gli altri partiti. Un’opzione che la base non ha ancora capito.