di Peppino Caldarola
Il ghiacciaio comincia a sciogliersi. Riferita al Pd questa metafora può significare molte cose, fra loro contraddittorie. Sia che la fusione fredda che ha dato origine al partito minaccia di scomporsi con possibilità realistiche di scissione. Sia che l’incomunicabilità fra vecchia e nuova generazione del Pd sta improvvisamente lasciando il passo a un nuovo, timido dialogo. Per rafforzare la prima tesi concorrono diversi fattori. Il primo dei quali porta al bunker dove Bersani resiste con il suo drappello di sostenitori, suggeritori, filosofi dell’auto-sufficienza. Il segretario ha portato il suo partito in un vicolo cieco. Le contraddizioni sono evidenti. Il paese chiede un governo ma l’unico possibile, essendo impossibile quello con il Movimento 5 stelle, quello “di scopo” con un accordo alla luce del sole con il centro-destra, non è nelle grazie dello stato maggiore del Pd.
L’idea del segretario
Bersani è affezionato al suo governo di minoranza che lo esporrebbe al ricatto quotidiano dei grillini sia sfusi sia aggregati e lo porterebbe ad un Vietnam parlamentare. Sarebbe un governo giolittiano senza Giolitti. Parlamentarismo nero allo stato puro. Al tempo stesso il segretario cerca di convincere il centro-destra a incassare l’auto-esclusione proponendogli solo il tavolo delle grandi riforme concordate. Il primo appuntamento sarà l’elezione del capo dello Stato con la singolarità di un centro-destra disposto a votare un uomo della sinistra, da Violante, a Marini, a D’Alema e un centro-sinistra bersanizzato che non dice quello che vuole ma che probabilmente punterà su Prodi, inviso all’altra parte.
Questa linea sta scontentando la vecchia maggioranza bersaniana. Si sono infatti già defilati già Franceschini e Bindi. Letta, nel senso di Enrico, si sta prodigando inutilmente per ammorbidire l’immagine di Bersani. I renziani, invece, sentono che si avvicina il momento della rivincita con i sondaggi che danno il sindaco di Firenze in netta avanzata e con l’apparato bersaniano che tenta di metterlo all’angolo con vere e proprie sgarberie come la mancata elezione di Renzi fra i Grandi elettori toscani. L’amalgama del Pd non solo è sempre più malriuscito ma rischia addirittura di spappolarsi.
In controtendenza rispetto a questo clima funereo, che prepara la battaglia finale nel partito e la sua probabile fine, c’è da registrare la mossa di D’Alema di incontrare Renzi. L’ex premier non ha mai nascosto la sua avversione verso non la persona ma il giovanilismo rottamatore di Matteo ma già durante la campagna elettorale aveva apprezzaato la sua lelatà e il suo spirito di squadra. Chi conosce D’Alema sa due cosedi lui: che apprezza i combattenti e che non ha nemici personali. La politica viene prima di tutto. E la politica lo ha sospinto a incontrare a Firenze colui che ha nelle mani sia le sorti del Pd sia la possibilità che resti unito e si divida. Renzi d’altro canto ha capito che ciò che non gli ha giovato nelle primarie non è stato il suo profilo di riformista liberal quanto l’idea che avesse una concezione del partito con confini chiusi alla sua sinistra. Renzi era sembrato il promotore di una nuova conventio ad axcludendum verso chi aveva dato l’idea di non sopportare la novità di un attacco ad alzo zero alla sua generazione.
L’unione fa la forza
A tempo quasi scaduto i due hanno capito che l’inimicizia porta alla rovina comune. Che sia il giovane dirigente con il futuro davanti, sia il “vecchio” leader che ha molto da dire e da fare possono trovare se non accordi almeno una pacifica convivenza. Per Bersani l’incontro di ieri può essere una boccata di ossigeno se apre le finestre del bunker. Può essere l’inizio della fine se, sotto la spinta dei suoi suggeritori, da Gotor ai giovani turchi, si prepara a reagire all’assedio immobilizzando ancora il suo partito e il paese.