La manovrina dalle risicate coperture che sta elaborando il governo Meloni sarà costretta ad affrontare anche il delicatissimo capitolo delle pensioni, che sembra farsi ancor più dolente quando si tratta di donne. A dircelo è l’Istat con dei dati che, fotografando efficacemente il gender gap pensionistico, mostrano come questo affondi le sue radici nella contrattazione collettiva e nella difficoltà di conciliare il tempo della vita con quello del lavoro che spesso induce le donne a rinunciare ad incarichi, o ad optare – laddove possibile – per il part-time con le relative ripercussioni contributive.
Gli uomini vincono per stipendi e tasso di occupazione. Perciò va difesa la compensazione di Opzione donna
Al centro dell’attenzione c’è il trattamento definito “Opzione Donna” e, attraverso onerose soluzioni tecniche, l’estensione della platea di beneficiare. Una delle ipotesi è l’abolizione del vincolo dei figli per le lavoratrici che usufruiscono oggi dell’agevolazione (caregiver, invalide e licenziate o lavoratrici di aziende in crisi). Anche in assenza di uno o due figli queste categorie potrebbero conquistare l’uscita dal mondo del lavoro anticipandola a 58 anni.
Qui però occorre ricordare una cosa: nel 48% degli uomini in pensione si concentra il 56% della spesa previdenziale, mentre al 52% delle donne pensionate va il 44% della spesa, con uno sbilancio del 36% del trattamento pensionistico a favore degli uomini. In questo desolante quadro “Opzione Donna” viene presentata come un’agevolazione per le donne, ma in realtà il prezzo da pagare per questa scelta è altissimo perché comporta un taglio del 40% del trattamento previdenziale rispetto ai valori medi e questo è accaduto anche a gennaio 2023 per le ben 175 mila donne che hanno scelto questa strada.
In un quadro nazionale in cui il salario minimo – in vigore in 22 dei 27 Stati dell’Unione europea – si presenta come una necessaria misura a sostegno della dignità del lavoro, la situazione femminile ci conferma ancora una volta quanto sia lunga e tortuosa la strada verso una piena parità di genere. Il tasso di occupazione femminile, che durante la pandemia era sceso ben oltre la soglia del 50%, negli ultimi due anni mostra un trend in risalita e negli ultimissimi dati Istat attesta un +1,2% di crescita in un anno, ma è sotto ben 13,8 punti percentuale rispetto alla media europea.
Il lavoro rosa è troppo sacrificato dalla conduzione familiare. Invertire la rotta è un dovere
Ma il problema non è costituito unicamente dal non avere un lavoro, ma dal tipo di lavoro che si ha. E anche in questo caso noi donne deteniamo un triste primato perché a fronte dell’8% degli uomini che ha l’orario lavorativo ridotto, siamo ben al 30% di part-time femminile, che il più delle volte costituisce una scelta obbligata e non certo libera. Le poche ore lavorative, con una distanza salariare sapientemente occulta da vari escamotage, si ripercuotono significativamente anche sulle pensioni che sono destinate ad essere totalmente inadeguate a soddisfare le primarie necessità individuali.
Oggi perciò è il tempo non più procrastinabile in cui mettere in campo interventi per sostenere il lavoro nel Paese, facendo viaggiare parallelamente l’approvazione del salario minimo e la revisione dei Contratti collettivi nazionali di lavoro siglati non più da sindacati pirata, ma da realtà realmente rappresentative (serve una legge!) e in grado di tutelare sul serio gli interessi dei lavoratori. In questa innegabile priorità nazionale, non può essere ignorata la questione femminile che non può essere risolta spacciando per aiuti misure che subdolamente nascondono altre disparità.