C’è un particolare, drammaticamente sottovalutato, che rende quasi grottesche le tragiche notizie di morte connesse al terrorismo islamico. Di quel grottesco che lascia tra l’incredulità e lo sdegno. Secondo quanto riportato dai media britannici, infatti, l’attentatore che si è fatto saltare in aria uccidendo 22 persone alla Manchester Arena, il 23enne Salman Abedi, era noto alle autorità di Sua Maestà. Quante volte abbiamo sentito dirlo. “Noto alle autorità”. Troppo poco noto, probabilmente, per prendere misure preventive ed evitare tragedie. E dire che i compiti dell’intelligence, specie in periodo di “terrore”, sarebbero proprio quelli di monitorare eventuali attentatori, i loro spostamenti, i loro contatti.
L’ultimo di una serie – Eppure a guardare gli ultimi tragici episodi connessi all’Isis che hanno sconvolto l’Europa, c’è qualcosa nell’organizzazione antiterroristica internazionale che lascia pensare a terribili falle. Restiamo in Inghilterra. Il 22 marzo scorso, come si ricorderà, un altro attentato aveva sconvolto Londra: un uomo con un suv si era lanciato sui passanti del ponte di Westminster, uccidendo cinque persone. Il giorno dopo la premier Theresa May, intervenendo in Parlamento, ebbe a dire che l’attentatore, esattamente come in questo caso, era un cittadino britannico che era conosciuto dai servizi segreti del Regno Unito. L’uomo era stato infatti indagato per “estremismo violento” alcuni anni fa ma, per May, si tratterebbe comunque di “una figura marginale” perché “si tratta di un caso relativo al passato” che “non rientrava nell’attuale quadro (di indagini, ndr) dell’intelligence”. Ed è qui che le falle si mostrano in tutta evidenza, perché già in quell’occasione la premier, esattamente come ieri, aveva parlato di allerta “alta” e di “possibili altri attentati”. Attentati, ancora una volta, orditi e realizzati da volti noti all’intelligence. Due su due. Un en-plein tragico che dovrebbe far riflettere su un sistema, quello dell’antiterrorismo internazionale, che non funziona. Già, perché il punto pare essere proprio questo. Come sottolineano diversi analisti, non si può pensare che esistano tante partite a seconda dei vari Stati colpiti. La realtà è che il terrorismo è una minaccia globale e, dunque, la risposta non può che essere, allo stesso modo, globale.
Gli altri casi – Non è un caso che quanto capitato in Inghilterra, sia capitato anche in altre varie drammatiche circostanze. Andiamo in Svezia, a Stoccolma. Il 7 aprile anche qui un camion si è lanciato sulla folla, uccidendo cinque persone. E anche qui la stessa dinamica: l’uomo che ha travolto i pedoni era noto all’intelligence svedese. Ancora una volta. Ma non basta. Facciamo un ulteriore passo indietro e andiamo a Berlino, al mercatino di Natale. Un altro attentatore su un camion: 12 morti, tra cui anche la nostra Fabrizia Di Lorenzo. Conosciamo bene gli sviluppi di quella tragica storia, con lo jihadista Anis Amri freddato all’alba del 23 dicembre a Sesto San Giovanni dopo essersi spostato per mezza Europa in fuga. Ebbene, anche il tunisino era noto alle autorità tedesche e su di lui erano già partite le indagini, almeno sei mesi prima, perché sospettato di preparare un attentato. L’attenzione da parte dei servizi segreti si era concentrata sul giovane immigrato dopo l’acquisto di armi automatiche. E poi? Nulla. Indagini archiviate. Fino a qul tragico giorno di lunedì 19 dicembre.
Tragiche gaffes – Senza dimenticare gli attentati in Belgio e gli enormi buchi dei servizi di Bruxelles, tristemente passati alle cronache. Dall’indirizzo sbagliato di casa di Salah Abdeslam fino all’allarme ignorato sui fratelli Ibrahim e Khaled Bakraoui che avrebbero voluto immolarsi. Bene, l’hanno fatto. Uno in aeroporto, l’altro in metro. E sappiamo com’è andata a finire.