È stato solo per una coincidenza fortunata – era stata impedita la viabilità poco prima dall’Anas – che il crollo del viadotto sulla Sila-Mare, nel comune di Longobucco in provincia di Cosenza, non abbia provocato, due giorni fa, una tragedia. La Procura della Repubblica di Castrovillari ha aperto un fascicolo. A provocare il cedimento della struttura sarebbero state le piogge incessanti e la conseguente piena del fiume Trionto.
A mollare è stato uno dei piloni dell’infrastruttura, denominata “Ortiano 2” realizzata nel 2014 lungo la strada statale 177 Dir, meglio conosciuta appunto come la “Sila-Mare’ e aperta al traffico nel 2016. Una strada la cui storia comincia nel lontano 1990, quando viene posata la prima pietra da Longobucco in direzione mare, e che è un’incompiuta. Sono passati da allora 33 anni e il tratto percorribile è di soli 11 chilometri sui 25 totali e con una spesa che – ricorda La voce cosentina – finora supera i 100 milioni di euro.
La propaganda di Salvini sul Ponte sullo Stretto rischia di costarci ben oltre i 14,6 miliardi previsti dal Def
Non c’è stata ugual fortuna a Genova. Il cedimento del viadotto calabrese – per il quale l’Anas ha chiarito di non avere responsabilità circa la realizzazione e di averne acquisito la gestione solo nel 2019 – ha riportato infatti alla mente le sequenze del crollo del ponte Morandi. Che, con le sue 43 vittime, è diventato il simbolo del degrado delle infrastrutture italiane. Ecco perché, considerando la fragilità del nostro sistema infrastrutturale appare “lunare”, come ha denunciato Agostino Santillo, vicecapogruppo M5S alla Camera, continuare con la propaganda sul Ponte sullo Stretto, come fa Matteo Salvini, che rischia di costarci ben oltre i 14,6 miliardi previsti dal Def.
“Invece di vendere fumo agli italiani, il governo dovrebbe approntare subito una grande opera di investimenti sulla messa in sicurezza del territorio, delle nostre infrastrutture e dei nostri fiumi, visto anche quanto è accaduto in questi giorni in Emilia Romagna. Calabria e Sicilia – ha dichiarato Santillo – prima ancora di un’opera faraonica dall’utilità più che dubbia come il ponte sullo Stretto, hanno bisogno di infrastrutture degne di tale nome. Invece in Calabria vediamo i viadotti venire giù e in Sicilia c’è una tratta stradale attesa da decenni come la Siracusa-Gela ferma per mancati pagamenti alle aziende che ci stanno lavorando”.
E come dargli torto considerando che il patrimonio infrastrutturale civile del nostro Paese versa in una condizione di degrado allarmante. Diversi i report che denunciano una situazione di pericolosa fragilità: 182000 edifici costruiti tra il 1960 e il 1980 e 76000 costruiti prima del 1960 si trovano in uno stato di conservazione definito “mediocre” o “pessimo”.
Dieci i ponti crollati negli ultimi 10 anni
A denunciare la vetustà e fragilità delle nostre infrastrutture, con un’età media di 60 anni circa, è stato di recente anche il rapporto InnoTech Hub di The European House – Ambrosetti, presentato a marzo scorso. Dieci i ponti crollati negli ultimi 10 anni, 49 morti e 13 feriti, 400 ponti considerati a rischio crollo, idem per oltre 200 gallerie, oltre 6 milioni di strutture / infrastrutture a rischio sismico. Da una parte il boom edilizio e dall’altra una scarsa attività di manutenzione strutturale delle opere hanno determinato tale situazione. I sistemi infrastrutturali invecchiano, sono soggetti a degrado e deterioramento, sono esposti alla minaccia di disastri naturali; se invecchiano male, cioè senza un’adeguata attività di monitoraggio e controllo, costituiscono – come argomenta Novatest, azienda specializzata in ingegneria civile e industriale – anche un pericolo serio per la salute e la sicurezza delle persone.
L’Italia è un territorio particolarmente sensibile al rischio naturale e molte delle infrastrutture civili si trovano in aree considerate ad elevato rischio: 11000 opere si trovano in zone a pericolosità da frana elevata e molto elevata, 40000 sono a rischio inondazione, più di 30000 sono ubicate in aree potenzialmente allagabili. Inoltre, il 70% del territorio italiano è ad alto rischio sismico, il più elevato tra i paesi europei. I fenomeni sismici, le alluvioni e le frane, hanno fatto registrare solo negli ultimi 70 anni circa 10000 vittime e hanno procurato un danno economico pari a circa 300 miliardi di euro.
A ciò si aggiunga pure che tra i rischi naturali in Italia annoveriamo anche il rischio vulcanico che interessa circa 2 milioni di persone che vivono nella zona dei Campi Flegrei e intorno all’Etna. La consapevolezza che l’Italia è un paese nel quale si sommano il rischio sismico, il rischio idrogeologico e il rischio vulcanico, dovrebbe rendere prioritaria la questione della sicurezza del patrimonio infrastrutturale civile e la necessità di interventi costanti mirati al controllo e al monitoraggio dello stesso. Ma questo il più delle volte non accade.
Gli analisti di Ambrosetti ci ricordano quanto sia necessario aumentare gli investimenti pubblici in infrastrutture e opere civili, invertendo il trend di decrescita che ha caratterizzato gli ultimi 15 anni. Il Pnrr – dicono – va nella giusta direzione, ma deve essere seguito da altri interventi.
Ecco alcuni numeri: in Italia la spesa pubblica in infrastrutture è scesa del 17% fra il 2008 e il 2021, contro il +16% della Germania e il +28% della Francia. Nel 2021 l’Italia ha speso circa 20 miliardi in infrastrutture contro i 64 miliardi della Germania e i 40 miliardi della Spagna. A ciò si aggiungano anche i tempi di realizzazione di un’opera pari nel nostro Paese a 4 anni e 5 mesi, con un massimo di circa 16 anni per le grandi opere. I lunghi tempi di completamento comportano un aumento dei costi e una maggiore probabilità che l’opera rimanga incompiuta.