Cosa non torna sullo scudo penale: dal governo gioco delle tre carte

Dalla negazione alla realtà: gioco delle tre carte sullo scudo penale per le forze dell'ordine. Tra le contraddizioni del governo.

Cosa non torna sullo scudo penale: dal governo gioco delle tre carte

Il gioco delle tre carte del ministro della Giustizia Carlo Nordio sullo scudo penale per le forze dell’ordine è arrivato all’atto finale. Quello in cui, dopo aver negato in più occasioni l’esistenza stessa di un progetto simile, il governo Meloni conferma di voler introdurre un provvedimento che mira a schermare gli agenti da procedimenti giudiziari. Una vicenda che mescola contraddizioni, opportunismi politici e un progressivo svuotamento delle garanzie giuridiche. Ripercorriamo i passaggi chiave di una narrazione che si è trasformata più volte fino a svelare le reali intenzioni dell’esecutivo.

Scudo penale, le negazioni iniziali

«Non si è mai parlato di scudo penale», dichiarava Nordio qualche mese fa durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi, rispondendo alle prime domande sull’argomento. Una frase lapidaria, ripresa con forza anche dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che aggiungeva: «Nessuno pensa a un’impunità per gli agenti». Il mantra era chiaro: nessuna misura speciale, nessuna corsia preferenziale per le forze dell’ordine. Una linea di comunicazione studiata per disinnescare le critiche, soprattutto alla luce delle polemiche internazionali sui casi di abuso di potere da parte delle autorità italiane.

Eppure, già allora si intuiva che qualcosa bolliva in pentola. Il sottosegretario Alfredo Mantovano stava infatti lavorando a una proposta che garantisse maggiori tutele legali agli agenti, evitando che venissero automaticamente iscritti nel registro degli indagati in caso di uso della forza. Una contraddizione evidente tra le parole pubbliche e le mosse dietro le quinte.

Il passo successivo: negare per preparare il terreno

Con il passare dei mesi, il tono è cambiato. Nordio ha iniziato a seminare dubbi sull’utilità del registro degli indagati e dell’avviso di garanzia, definendoli «istituti falliti». «Sono diventati una gogna mediatica», ha dichiarato in Senato, aggiungendo che queste procedure finiscono per marchiare a fuoco chi vi è coinvolto, anche se innocente.

Parallelamente, il governo ha iniziato a sondare l’opinione pubblica e a raccogliere il consenso dei sindacati di polizia. Fratelli d’Italia, con il capogruppo Galeazzo Bignami, ha proposto di accelerare gli accertamenti preliminari per evitare che gli agenti fossero iscritti nel registro indagati. Una bozza prevedeva che il pubblico ministero potesse concludere il tutto in sette giorni, senza avviare formalmente un procedimento.

Il ribaltamento finale sullo scudo penale

Ora, con l’annuncio ufficiale di Nordio, il cerchio si chiude. Il tema non solo è sul tavolo, ma viene presentato come una necessità per garantire serenità agli agenti e proteggere la loro reputazione. Il ministro non si nasconde più: «Stiamo studiando un provvedimento che, senza essere uno scudo penale, coniughi le garanzie per l’agente con la tutela della sua dignità». Un’espressione ambigua che, nei fatti, sembra confermare il progetto a lungo smentito.

Questa svolta coincide con l’approvazione della riforma sulla separazione delle carriere. Un tempismo che non può essere casuale, ma che punta a rafforzare il controllo politico sulla giustizia e a consolidare il consenso di una categoria chiave per la destra. Il tutto mentre vengono ignorati gli appelli della società civile e delle organizzazioni internazionali, che denunciano il rischio di creare una polizia al di sopra della legge.

È la natura del governo Meloni, che ammicca a determinati gruppi. Le contraddizioni di Nordio, le negazioni iniziali e la strategia di comunicazione orchestrata per preparare il terreno dimostrano una pianificazione accurata. Ma questa storia solleva la solita domanda inquietante: chi proteggerà i cittadini dagli abusi se chi deve far rispettare la legge è sottratto alle sue stesse regole?