Troppo facile adesso dargli addosso e accusarli di aver arrecato a Roma un danno irreparabile. Per gli opinionisti, gli avvocati, gli imputati che hanno sempre contestato il capo di accusa della mafia, i magistrati della Procura guidata da Giuseppe Pignatone dovrebbero fare come i giapponesi quando sbagliano, inchinarsi davanti a tutti e chiedere scusa. Nell’inchiesta denominata mafia Capitale c’è infatti l’antologia completa della corruzione e delle porcherie, ma non l’associazione mafiosa. L’immagine della città, in sostanza, si è massacrata per niente. Perché di un massacro si è trattato, come ha fatto intelligentemente notare a un recente convegno il presidente della Camera di commercio romana, Lorenzo Tagliavanti, disperato perché da quando è partita l’inchiesta i dati sull’economia della città sono tutti in picchiata. Se pensiamo a quali sono le tre parole italiane più famose nel mondo – ha fatto notare Tagliavanti – ci vengono subito in mente pizza, pasta e mafia. Ecco, aver appiccicato la parola mafia alla parola Capitale ha comunicato a tutto il pianeta con una efficacia incredibile che Roma è mafiosa.
Su questo punto dunque la Procura ha fatto male i conti e ha perso, ma a fare l’inchino stavolta non devono essere i magistrati bensì i romani. Quello scoperchiato era infatti un sistema – chiamarlo mafioso o no qui cambia poco – diventato un cappio su tutte le attività imprenditoriali escluse dal circolo esclusivo dei mammasantissima che si erano impadroniti di pezzi rilevantissimi della pubblica amministrazione della città. La sentenza di ieri su questo punto è chiara e non smentisce che il gruppo di potere di Carminati, Buzzi & C. insieme ai politici a libro paga o garantiti dal voto di scambio (Coratti, Gramazio, Tassone, ecc.) spadroneggiava nel dividersi appalti, favori e soldi pubblici.
Pericolo sventato – Questa consorteria diventata in poco tempo potentissima grazie a molti degli elementi che sono tipici dell’associazione mafiosa (manca solo l’affiliazione dei soggetti in famiglie) aumentando la sua sfera d’influenza si sarebbe potuta trasformare in qualcosa di più vicino ai clan di cosa nostra. I magistrati hanno dunque inciso su un bubbone che stava infettando in maniera incurabile la Capitale. Hanno usato il bisturi sbagliato? La sentenza di ieri dice di sì, perché avrebbero potuto procedere con l’inchiesta che ha portato al processo appena concluso in primo grado limitandosi a contestare agli imputati i non pochi reati accertati. Invece si è voluto strafare, perseguendo teoremi arditi e persino facilmente confutabili, come i soldi portati da Alemanno in Argentina passando insieme al figlio dai varchi aeroportuali in un viaggio che – bastava controllare i tabulati delle compagnie aeree – padre e figlio fecero in giorni diversi. E non è andata molto diversamente con il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, indagato insieme a uno dei suoi più stretti collaboratori, e poi prosciolto da ogni ipotesi di reato. Fu la caduta di quei due tasselli – Campidoglio e Regione – a far scendere di “peso” l’inchiesta che alla fine sul piano politico colpisce solo poche pedine e tutto sommato di non grandissima importanza. Tutto questo però non ha impedito a qualcuno di capitalizzare un enorme beneficio elettorale. Senza mafia Capitale non è così sicuro che i Cinque Stelle avrebbero potuto raccogliere il successo che hanno ottenuto con l’elezione della Raggi.
Partita di ritorno – Adesso resta da vedere come andrà a finire la partita di ritorno, con il probabile ricorso della Procura in appello. Per Pignatone i quasi 300 anni di condanne inflitte agli imputati non cancellano l’errore di un’accusa per mafia e vista la delicatezza di altre indagini, a partire da quella sulla fuga di notizie Consip per cui è indagato il pm di Napoli Henry John Woodcock, essere smentiti ancora lascerebbe una macchia non da poco sul lavoro di tutto l’ufficio.