di Stefano Sansonetti
Per carità, la critica può essere considerata sacrosanta. Perché 7.712 organismi controllati dalla pubblica amministrazione italiana, al costo complessivo di 23 miliardi di euro l’anno, rappresentano un lusso che il paese non si può proprio più permettere. Peccato, però, che gli strali arrivino da quella Confindustria che, proprio grazie allo Stato-imprenditore e alle sue aziende, tira avanti alla grande. E quindi risulta come minimo curioso lo sdegno con cui, due giorni fa, il Centro studi di Viale dell’Astronomia ha diffuso le scandalose cifre. Del resto basta farsi un giro tra le più rappresentative associazioni regionali per rendersi conto di quale sia l’apporto economico delle società pubbliche in Confindustria, oggi guidata da Giorgio Squinzi. Si prenda Unindustria, l’organismo che riunisce Roma e le province del Lazio. Nella sua giunta sono presenti manager come Mauro Moretti di Ferrovie dello Stato, Giancarlo Cremonesi di Acea, Pietro Ciucci di Anas, Rodolfo De Laurentis della Rai, Loretana Cortis di Poste italiane, Pierluigi Borghini di Eur spa, Vincenzo Soprano di Trenitalia, Francesco Giorgianni di Enel, Angelo Fanelli di Eni, Stefano Conti di Terna, Roberto Maglione di Finmeccanica e chi più ne ha più ne metta. Inutile far notare come tutte queste società versino consistenti quote associative. In alcuni casi può trattarsi anche di centinaia di migliaia di euro, come è emerso anche di recente a proposito del controverso rapporto con Confindustria di Atac, la disastrata azienda del trasporto pubblico locale di Roma.
Conto salato
La società controllata dalla Capitale, infatti, proprio qualche mese fa ha deciso di uscire da Unindustria, dopo tutta una serie di polemiche sulla quota annuale di 75 mila euro finora versata all’associazione. Quota che, a quanto sembra, era destinata ad aumentare a 225 mila euro a partire dal 2014. Troppo, per un azienda come l’Atac schiacciata da perdite in due anni per 335 milioni e da un debito verso banche e fornitori di 700 milioni. Ma il caso specifico può far capire agevolmente in quale misure le tanto criticate aziende di Stato contribuiscano alla casse di viale dell’Astronomia. Situazione che, peraltro, avviene in tutte le associazione territoriali. Si pensi alla più ricca in assoluto, ovvero l’Assolombarda presieduta da Gianfelice Rocca. Ebbene, nel suo consiglio direttivo è presente Graziano Tarantini, presidente del consiglio di gestione di A2a, ovvero della ex municipalizzata in cui ancora oggi vantano partecipazioni i comuni di Milano e Brescia. Proprio quelle partecipazioni che adesso Confindustria critica aspramente (e giustamente). Il Centro Studi ne ha addirittura censite 39.997. Il fatto è che uno screening esaustivo delle municipalizzate e delle aziende pubbliche che aderiscono a Confindustria è quasi impossibile. Chissà, forse lo stesso Centro studi degli industriali potrebbe provare a capire quante sono, magari mettendole in rapporto al totale degli organismi partecipati dalla pubblica amministrazione.
In società col Tesoro
Per non parlare, poi, delle situazioni in cui Confindustria fa direttamente affari con lo Stato, facendolo entrare in una delle sue tante società. E’ il caso, tanto per dire, del gruppo Stil Novo, ovvero la holding che viale dell’Astronomia ha lanciato qualche anno fa per promuovere l’internazionalizzazione delle imprese. Nel gruppo, guidato da Paolo Zegna, qualche mese fa è entrata la Simest, proprio la società per l’internazionalizzazione delle imprese controllata dalla Cassa Depositi e prestiti (a sua volta all’80% del Tesoro). In particolare, come raccontato da La Notizia del 26 aprile scorso, la Simest ha rilevato il 20% della Stil Novo Management, ovvero la società operativa della holding di Confindustria. L’operazione è stata perfezionata quasi in silenzio, ma l’associazione degli industriali ci stava lavorando da diversi anni. E adesso è diventata realtà. A ulteriore dimostrazione del fatto che, quando fa comodo, lo Stato-imprenditore è il benvenuto.
Viale dell’Astronomia incassa 500 milioni l’anno. Ma poi li brucia tutti
Ha un corpaccione che pesa molto e drena risorse a non finire. Si tratta grosso modo di 500 milioni all’anno, versati dalle aziende associate e subito bruciati nel calderone delle spese. Un dato, questo, che aveva spinto molti big a chiedere una drastica cura dimagrante di Confindustria. Tra questi, tanto per fare un esempio, c’è Alberto Bombassei, il patron di Brembo che venne battuto di misura da Giorgio Squinzi nella successione alla poltrona più importante di viale dell’Astronomia. Anche perché, soltanto a livello centrale, dipende dalla confederazione una decina di società che fanno di tutto e spesso sono in perdita. La Confindustria, però, vanta anche uno scrigno in cui ci sono titoli, partecipazioni e azioni che complessivamente valgono la bellezza di 240 milioni di euro. Con l’aggiunta, sempre considerando solo il livello centrale, di immobili e terreni per un totale di 127 milioni. Di recente è stato approntato un piano di riforma dell’associazione da parte di una Commissione presieduta da Carlo Pesenti. In base al progetto, dalle attuali 100 associazioni territoriali si passerà a 50, mentre dalle attuali 120 associazioni di categoria e di settore si arriverà a circa 30. Il tutto per risparmi stimati tra il 20 e il 30%. Peccato, però, che per l’andata a regime della cura dimagrante, a detta degli stessi autori del progetto, ci vorrà qualche anno.