Alla Fiera di Roma migliaia di candidati si presentano per le prove del concorso indetto dal Ministero dell’Agricoltura. È l’occasione per 347 posti pubblici tanto sbandierati dal ministro Francesco Lollobrigida. Studiano, viaggiano, spendono, poi si siedono davanti a un computer per dimostrare di essere i migliori. Ma mentre i tasti ticchettano, fuori arriva la sentenza del Consiglio di Stato: il concorso è annullato (insieme ad uno simile alla Difesa). Tutto da rifare.
Il motivo è semplice e imbarazzante: quando il Masaf ha pubblicato il bando, le graduatorie di un concorso del 2020 erano ancora valide. La legge dice che prima di indire nuove selezioni bisogna esaurire quelle esistenti o spiegare perché non lo si fa. Il Masaf ha preferito ignorare entrambe le opzioni. Così, in una vicenda che sembra uscita da una commedia grottesca, un concorso viene fermato a metà strada, lasciando sul terreno solo delusione e sprechi.
E qui non si tratta solo di un errore procedurale, ma di una questione morale. Organizzare un concorso significa chiedere ai cittadini di fidarsi di un sistema che rispetta le regole e il merito. Qui, invece, l’unica certezza è che qualcuno non ha fatto il proprio dovere. E come sempre, a pagare saranno gli altri: risarcimenti per i candidati, spese pubbliche buttate, credibilità persa.
Mentre il ministro continua a parlare di sovranità alimentare, si dimentica la sovranità della competenza. E allora la domanda resta: quanto vale il tempo, lo studio, la speranza di migliaia di cittadini quando dall’altra parte c’è un governo che inciampa anche sui fondamentali? E soprattutto: quanta pazienza sarà concessa ancora all’ex cognato d’Italia?