A salvare l’Italia (se si salverà) saranno le piccole e medie imprese e i piccoli risparmiatori. Le grandi aziende – e mai la parola “grandi” fu più inappropriata – riunite in Confindustria hanno fatto vedere ancora una volta di quale bassezza sono capaci. Convocate agli Stati Generali per fornire una visione strategica del futuro industriale dell’Italia e quindi per dare un contributo di competenza e veggenza sul breve, medio e lungo periodo, Confindustria è scesa a un livello inimmaginabile: ha chiesto un rimborso di 3,4 miliardi di accise sull’energia, sicuramente dovuto, ma qui completamente fuori contesto.
Per una richiesta così terra terra bastava una letterina di due righe al ministro dello Sviluppo economico, non c’era bisogno del discorso del presidente Carlo Bonomi in un’assise internazionale dove si parla di alta strategia. Insomma, siamo all’accattonaggio puro, nel solco del solito parassitismo: una vergogna. C’è voluta la pazienza di Giobbe, anzi di Giuseppi, per non invitare Confindustria ad accomodarsi alla porta. Poi ci chiediamo perché la Germania ci sopravanzi su tutto lo spettro. La Confindustria tedesca (Bdi, Bundesverband der Deutsche Industrie), senza neppure bisogno di Stati Generali, ha immediatamente elaborato, all’inizio della crisi pandemica, piani strategici che ha trasmesso con una lettera dei primi di aprile alla Confindustria italiana e al governo di Berlino.
Tali piani strategici hanno convinto Angela Merkel a invertire il suo atteggiamento verso l’Italia. La Cancelliera è passata così da una posizione conservativa (“Il Mes è l’unico strumento di intervento che abbiamo”) a una posizione proattiva, tanto da gettare sul tavolo insieme alla Francia la proposta di un potente Recovery Fund da 750 miliardi per aiuti ai Paesi europei in difficoltà, dunque in primis all’Italia. La visione della Bdi è limpida, razionale: l’Italia è una roccaforte strategica per la difesa della Germania, una specie di linea Maginot, non solo perché, come spesso si ripete, sul suolo italico si producono molti accessori per le auto tedesche, ma per due motivi più generali. Primo motivo, la dimensione dell’economia italiana, crisi o non crisi, rimane quella di un peso massimo in campo europeo e il Vecchio Continente non può permettersi di farne a meno, specie dopo l’uscita del Regno Unito, che ormai è perso. Se crollasse la roccaforte Italia, la Germania vedrebbe sbriciolarsi l’intero castello europeo e con esso la ricchezza fin qui costruita dalla società teutonica.
Secondo motivo, l’industria italiana è intimamente connessa, come nessun’altra, con l’industria germanica, ben al di là del settore automobilistico. Una crisi “greca” nella penisola con conseguente catastrofe industriale del Bel Paese trasformerebbe in prede dei capitali stranieri non solo il Colosseo, la Torre di Pisa, i porti e gli aeroporti, ma tutte le più vitali aziende pubbliche e private. E chi le comprerebbe? Non i tedeschi ma i cinesi, in particolare gli agglomerati industriali partecipati direttamente dal governo di Pechino. Le aziende tedesche non avrebbero la minima chance di competere con le gigantesche disponibilità finanziarie cinesi. Risultato: l’industria tedesca, oggi florida e rifornita da una pluralità di aziende italiane, si troverebbe drammaticamente con un cappio cinese al collo. Sappiamo quanto la Cina miri all’invasione del Vecchio Continente, ed è facile capire come finirebbe la storia, per gli europei e per i tedeschi.
Ecco: questa in sintesi è la visione strategica germanica. E a confronto di tutto questo, che contributo ha offerto da parte sua la Confindustria italica? Nessun contributo: solo la richiesta al governo di pagare 3,4 miliardi di euro di accise, preludio alla solita richiesta di aiuti di Stato, ovviamente a spese dei contribuenti. Insomma, come ieri, come sempre. Per tale pochezza di visione non sprecherei nemmeno la frase di John Kennedy “Non chiederti cosa lo Stato può fare per te, chiediti cosa tu puoi fare per lo Stato”, e passerei alla ruvida sintesi che dei nostri non industriosi industriali dava ieri La Notizia nel titolo di prima pagina: “Chiagni e fotti”. Con questa generazione di capitalisti all’amatriciana l’Italia non va da nessuna parte.