di Stefano Di Michele per Panorama
Spiegava la contessa Clara, nel suo Galateo (edizione 1955), alla voce Età: «Parlatene il meno possibile, non confessate la vostra, non chiedetela agli altri». L’esatto contrario, nell’era renziana che si apre, occorre fare: gli anni, se pochi, dichiararli pubblicamente; se l’avversario ne ha qualcuno di più, costringerlo a confessarli. Se si è trentenni mostrare il petto, se si è quarantenni sforzarsi di apparire ancora ginnici, con ardore inconfessabilmente staraciano, se si è cinquantenni (e oltre) riporre l’unica speranza in un approccio complice: «Fate bene, voi giovani…».
Quelli, ancora a caccia di maestri per il Pantheon in divenire del Pd, potrebbero muoversi a compassione. Evitare l’orgogliosa tentazione dalemiana del pubblico vaffa. Regolarsi secondo il saggio ammonimento siciliano segnalato da Leonardo Sciascia in Nero su nero: «Calati juncu ca passa la china» (piegati, giunco, che passa la piena), se non si vuol finire nel ridotto bersaniano.
Il renzismo, ovviamente, richiede adeguamento musicale. Avendo i figlioli democristiani divorato i babbi comunisti, sfuggire come la peste l’antico ardore cantautorale genere La storia degregoriana, la Canzone popolare fossatiana e prodiana, e più che mai La locomotiva gucciniana, pericolosamente estremista e, paradossalmente, molto cara pure al ministro Angelino Alfano.
Un accenno a Jovanotti ancora va bene: sulle note di Ti porto via con me attraversò la folla festante la sera della vittoria alle primarie; come pure un riferimento a Ligabue. «Il meglio deve ancora venire»: ha messo in prosa da comizio, Renzi, un brano del rocker di Correggio.
Ma la vera colonna sonora, se si vuole andare sul sicuro, è il duo svedese di Icona Pop, I love it, ché, come direbbe il grande suo corregionale Paolo Poli, è roba che non dà fastidio «né a Cristo né a Satana», e soprattutto i Negrita: La tua canzone il segretario-sindaco l’ha mutata nella sua canzone. «Resta ribelle, non ti buttare via» ha intonato. Urge acquisto di appositi cd, e saper fischiettare i motivi alla vista del segretario per catturare l’attenzione.
Come si è visto in questi mesi, tra le primarie della disfatta del 2012 e quelle del trionfo di due settimane fa, Renzi è una sorta di togliattiano «totus politicus», pure quando fa il ganzo su Twitter. Ma sarebbe un errore ricordarglielo. Lo stesso, è necessario saperlo.
Inopportuna ogni citazione dei suoi predecessori, né Palmiro Togliatti né Enrico Berlinguer, ma neppure Massimo D’Alema, Walter Veltroni e Pier Luigi Bersani. Siamo al d.R. (dopo Renzi), alla politica che prende tutto ma viene presentata come dopolavoristica.
Associare alla parola politica, se proprio se ne vuol parlare, la parola leggerezza, pur senza annotare che ne fece largo uso Veltroni, quando mise di mezzo la famosa «lezione americana» di Italo Calvino sul tema. Al più, dribblare tra Nelson Mandela e Mahatma Gandhi e un accenno (più pop che politico) al Che e a Bobby Sands, sempre per la mistica del ribelle.
Concedere, nel tentativo di ingraziarsi l’homo novus d’Italia, qualcosa alla nostalgia, anche qui facendo attenzione ad apparire sedotti più dalla scenografia della Leopolda (bici di Gino Bartali, microfono da Papaveri e papere, Cinquecento, Vespa…) che da rischiose rimembranze veltroniane, genere Antonello Cuccureddu e figurine Panini.
Va benissimo l’evocazione di Mike Bongiorno: tenne Veltroni bimbo sulle ginocchia, tenne a battesimo alla Ruota della fortuna Matteo poco più che bimbo. Come perfetta è quella di Happy days (del resto, il meglio non deve ancora venire?): il chiodo di Fonzie, sfoggiato da Maria De Filippi, che tramutò Renzi in Renzie, è lì quale saldo ancoraggio.
Opportuno, nel caso di un faccia a faccia con Matteo, non eccedere in smancerie,
senza sottovalutare un certo grado di cavalleria. Vero che sono volati piatti (politici) con Anna Finocchiaro e Rosy Bindi, ma c’è la maggioranza di donne in segreteria, e soprattutto ci sono i toni e le parole che il segretario usa verso sua moglie Agnese. Quando alla Ruota della fortuna Mike gli chiese che lettera volesse, lui rispose: «Vorrei la A di Agnese». Rottamatore, però cortese. Vorrebbe fare il premier, ma assicura di sognare il giorno in cui sarà solo «first gentleman» e «il candidato sarà mia moglie».
Procurarsi le opere di Alessandro Baricco, a Renzi caro; far sfoggio, nella propria cineteca, di tutti i film di Fausto Brizzi, nella cui casa si rifugia Matteo quando si sposta a Roma. Manifestare così sentito interesse per gli albi dell’Uomo Ragno (nella biblioteca di Brizzi molto presenti) e affini. «Io e Matteo siamo la generazione Goldrake» faceva sapere appena un anno fa il regista. Regolarsi all’edicola.
Un rapido corso per apposite citazioni in caso di conversazione col trionfatore delle primarie. Se è uno scrittore, David Foster Wallace; altrimenti don Primo Mazzolari (ottimo, per un renzismo passabile, un amico prete da citare nell’occasione, come sempre fa Renzi col sacerdote che gli disse: «Dio c’è, ma non sei tu»). Però niente può accreditare presso il leader come un passato tra gli scout o una discreta conoscenza degli stessi. Garantito il successo se con studiata distrazione si porge a Renzi la citazione di Baden Powell che campeggia sul suo sito: «Lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato».
Negare ogni possibile superstizione, munirsi di cravatta o scialle sul viola: «Bellissimo colore». Gradito accenno al valore, qualunque sia il risultato, della Fiorentina in campo. Felicemente a segno ogni metafora calcistica. A cena, fosse possibile l’invito, maggiore possibilità di successo se è da Eataly, dall’amico Oscar Farinetti. Ricordare la felice battuta di Clint Eastwood che Matteo ebbe modo di sfoggiare: «Se vuoi una garanzia, allora comprati un tostapane». Soprattutto mettere la sveglia all’alba, così da incontrarlo come per caso vagante dalle parti del Nazareno. Rimirare il cielo e canticchiare: «Sei chiara come un’albaaaaa!!!», di Vasco Rossi. Dovrebbe gradire.