L’intelligenza artificiale sarebbe davvero utile se distinguesse tra giornalisti corretti e ciarlatani. Ma purtroppo ne sentiamo di tutti i colori.
Attilio Bonini
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Gentile lettore, non sia pessimista. L’IA arriverà presto al traguardo che lei auspica, anche se a quel punto credo che sarà messa al bando, magari con l’etichetta di putiniana. Comunque già oggi qualche metodo artigianale per riconoscere il ciarlatano esiste. Un segnale è spesso l’uso dei nomi geografici ed etnici. So bene che la linguistica non è una scienza esatta e le lingue si modificano nel tempo, ma è pur vero che i nomi spesso nascondono intenzioni. Ad esempio, faccia caso, la maggior parte dei giornalisti scrive Kyiv, o contorce la bocca per pronunciarlo, invece del normale Kiev, che è la traslitterazione italiana fin dal XIX secolo. Dipende dal fatto che Kiev è preso dal russo, mentre ora l’Ucraina reclama la derussificazione della sua lingua, definita nei manuali di slavistica “dialetto russo”. Per lo stesso motivo Zelensky, figlio di russi e battezzato Vladimir (come Putin), ora si firma Volodymyr. Ovvio che i giornalisti “in linea” col pensiero unico (cioè quasi tutti) si attorciglino la lingua su Kyiv o ancor più su Dnipro, città da loro detta Dnepr. Altre volte a far velo non è l’agenda politica ma l’ignoranza o il provincialismo di chi pratica l’inglese maccheronico. È il caso di quelli che per Bengasi scrivono, all’inglese, Benghazi o trasformano Addis Abeba in Addis Ababa, sempre all’inglese. E altri che, quando parlano di talebani, per sembrare chic scrivono taliban, che è inglese e giustamente fa rima con charlatan.
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