di Andrea Koveos
E’ colpa della crisi. Sentiamo ripetere sempre questo ritornello, ormai da troppo tempo. La recessione è reale, l’economia soffre e i consumi crollano, è vero. Eppure le imprese italiane potrebbero aumentare la loro produttività e risparmiare sui costi. Come? La ricetta si chiama riorganizzazione del lavoro. Telelavoro, flessibilità oraria, riorganizzazione degli spazi e utilizzo di strumenti digitali per la comunicazione e la collaborazione potrebbero far risparmiare 37 miliardi di euro alle aziende. Una boccata d’ossigeno anche per le migliaia di dipendenti che non rischierebbero più il proprio posto di lavoro. Secondo l’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano nell’ultima classifica europea disponibile sul telelavoro (2005), l’Italia si posizionava solo al 25esimo posto su 27 Paesi censiti con il 2,3% dei lavoratori che telelavorava per almeno un quarto del tempo, contro il 15,5% della Repubblica Ceca, il 14,4% della Danimarca, il 13% del Belgio, e il 12% della Norvegia. Anche Germania e Francia facevano molto meglio di noi, con il 6,7% e il 5,7% di telelavoratori. A distanza di otto anni, l’Italia sembra essere rimasta ancora al palo. Nel 2013 la percentuale di telelavoratori è ferma al 6 per cento. “Alla base di questo gap rispetto agli altri Paesi europei nella diffusione del telelavoro vi è una normativa pesante e restrittiva, una visione miope e rigida nelle relazioni industriali e una cultura del lavoro pesantemente gerarchica”.
Le piccole realtà
E poi ci sono le dimensioni medio-piccole della maggioranza delle nostre imprese che adottano per lo più modelli di lavoro tradizionali: nelle pmi la flessibilità nell’orario di lavoro è presente nel 25% delle imprese, ma viene offerta a tutti i dipendenti solo nel 10% dei casi, mentre il telelavoro è presente nel 20% delle imprese, ma è concesso a tutti i dipendenti in meno del 2% dei casi. Diversa la situazione delle grandi aziende, dove invece la diffusione della flessibilità nell’orario di lavoro è circa il triplo delle pmi e il doppio per quanto riguarda il telelavoro. Un’arretratezza, secondo l’Osservatorio, che si riflette in una “limitata soddisfazione dei lavoratori”. Sia per gli spazi fisici e gli strumenti informatici, sia per le policy organizzative. Il livello di soddisfazione più scarso riguarda la flessibilità del luogo e degli orari di lavoro: circa un terzo dei dipendenti ritiene che una percentuale significativa delle proprie attività, mediamente intorno al 40%, potrebbe essere svolta al di fuori della sede di lavoro. Senza incrinare la produttività. Il 92% dei lavoratori, poi, dichiara di non essere soddisfatto degli strumenti e dispositivi informatici a disposizione e il 64% ritiene che computer, smartphone e tablet casalinghi siano migliori di quelli forniti dall’azienda.
In ogni dove
La soluzione rilanciarsi può sembrare banale ma è davvero l’unica in grado di funzionare. Investire nelle tecnologie, dunque, con l’obiettivo di modificare i flussi di comunicazione tradizionali e di favorire l’accesso alle applicazioni professionali in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. Non solo. L’introduzione del telelavoro e la conseguente riduzione degli spostamenti dei lavoratori potrebbero portare a ulteriori risparmi economici di circa 4 miliardi di euro (pari a circa 550 euro per lavoratore all’anno) e a una riduzione di emissioni di anidride carbonica pari a circa 1,5 milioni di tonnellate all’anno. “I benefici potenziali dell’adozione di modelli di Smart Working sono troppo importanti per potersi permettere di non sviluppare subito un piano di interventi in grado di migliorare la competitività e la sostenibilità economica delle imprese”, ha detto Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working.