di Andrea Koveos
Un’opportunità mancata. Anzi una scocciatura. La certificazione Unesco nel nostro paese riguarda 49 siti per la maggioranza dei quali, però, questo prestigioso riconoscimento è più un formalità che altro. Questo per la metà di chi gestisce i nostri siti che ritiene superflua una tale certificazione internazionale. Niente di più superficiale: i vantaggi, invece, sono enormi. E poi non si perdono i finanziamenti europei indispensabili per scongiurare crolli e devastazioni come accaduto a Pompei o alla Reggia di Caserta. Eppure almeno 16 siti (tra cui Pompei appunto) e cioè il 34 per cento, non hanno avuto il tempo, in più di 10 anni di redigere un piano di gestione indispensabile per predisporre una programmazione strategica. E nel corso degli anni lo Stato non si è preoccupato di inserirne per legge l’obbligo. Anche perché in questo senso l’Unesco non pone alcun vincolo, immaginando un interesse altissimo. Cosa che non corrisponde al vero, considerando il lungo elenco dei luoghi degradati. In passato l’abusivismo edilizio ha gettato un’ombra sulle Cinque Terre o nella Val D’Orcia, in Toscana. Ignorare il riconoscimento Unesco è una contraddizione in termini, visto che esiste una procedura complessa per avere il timbro “di qualità mondiale”. Certificazione che rappresenta un elemento di distinzione e di attrazione. Un’occasione più unica che rara di rilancio turistico e economico, sommando tutto l’indotto che vi ruota attorno. L’Italia è un posto stupendo, pieno zeppo di opere d’arte e di istituzioni ed istituti che si occupano (o dovrebbero farlo) di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale.
La rivalità degli Enti
Immaginate cosa succede quanto un organismo internazionale come l’Unesco cerca di mettere d’accordo tutta una serie di soggetti gelosi del proprio orticello. Il blocco totale di ogni iniziativa che possa in qualche modo offuscare quello piuttosto che quell’altro ente. Come dimostra il fatto che ad aver completato il piano di gestione – secondo uno studio curato da Francesco Badia e pubblicato su Tafter Journal – sono stati 25 siti (53,2%), in 6 casi (12,8%) il piano è apparso in una fase di realizzazione piuttosto avanzata e nei restanti 16 casi (34,0%) l’effettiva realizzazione del piano è sembrata arretrata, se non addirittura assente.
Che cos’è il piano di gestione?
E’ una sorta di giuramento di Ippocrate, un’assunzione di responsabilità che si traduce nella redazione di un documento di programmazione per gestire gli effetti del riconoscimento e per definire gli strumenti di tutela e difesa dei siti. Non solo. Nei piani di gestione dovrebbero essere descritti i risultati effettivamente ottenuti. E lì dove non ci sono obblighi, né sanzioni passa tutto in cavalleria o meglio si traduce in una totale discrezionalità. Un piano di gestione bene fatto, costituisce un utile strumento di governo per le politiche di tutela e conservazione, valorizzazione, conoscenza e promozione del sito Unesco. Promozione che porta turisti e, soprattutto soldi, se solo si seguisse più attentamente il modello anglosassone di gestione; certamente adattato al contesto italiano. Per questo, come sostiene ancora Francesco Badia, è necessaria una maggiore cultura manageriale. Un sito Unesco si gestisce certamente con gli architetti ma in un contesto di crisi di liquidità il numero di professionalità specializzate in materie economiche e manageriali potrebbe senza dubbio contribuire allo “sfruttamento” del marchio Patrimonio dell’Umanità.
Qualcuno ci crede ancora
Gestire un dito Unesco è complicato, occorre crederci però perché il ritorno è assicurato. Un esempio positivo in questo senso lo stanno dando le Dolomiti le cui potenzialità di attrazione hanno permesso il coinvolgimento di tutti i soggetti responsabili del sito e dei portatori di interesse, predisponendo le risorse disponibili e le azioni da mettere in campo.
Redigere un piano di gestione a Firenze o Venezia è cosa assai complicata che richiede mesi se non anni di lavoro. Queste due città ce l’hanno fatto e ora si trovano a disposizione uno schema di lavoro che può essere esportato anche per altre realtà, non necessariamente Unesco ma altrettanto importanti. L’Italia, sul versante della conservazione del patrimonio artistico potrebbe fare molto di più. E l’Unesco è senza dubbio un’opportunità. Mancata per ora.