“In questo Paese esistono tre problemi importanti e diversi: il livello dei salari; il lavoro povero; il rinnovo dei contatti. Sono tre problemi che vanno tenuti assieme. I salari si sostengono con la riduzione del cuneo fiscale”, ma “la riduzione del cuneo fiscale non risolve la questione del lavoro povero, perché se uno guadagna 650 euro al mese, anche se gli tagli il cuneo, non se ne accorge quasi”.
Orlando: “La riduzione del cuneo fiscale non risolve la questione del lavoro povero”
A pronunciare queste parole non è stato un esponente qualsiasi dell’opposizione ma il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, in persona in un’intervista a La Stampa di qualche giorno fa. Peccato poi che lo stesso ministro si faccia promotore di una proposta sul salario minimo che non è in grado affatto di risolvere il problema delle buste paga da fame che esiste in Italia.
Fare derivare il salario minimo, comparto per comparto, dai contratti comparativamente maggiormente rappresentativi non è infatti una garanzia dal momento che questi contratti spesso stabiliscono minimi salariali a dir poco miseri. Ma ora a noi interessa concentrarci sulla questione del cuneo fiscale.
La sua riduzione è invocata come la panacea di tutti i mali e la soluzione per contrastare il lavoro povero. Laddove soltanto l’introduzione di un salario minimo per legge potrebbe contrastare il working poor.
Il cuneo fiscale misura la differenza tra il costo del lavoro per il datore di lavoro e la corrispondente retribuzione netta del lavoratore. Tale cuneo è la somma di due principali componenti: l’imposta sul reddito delle persone fisiche da un lato e i contributi previdenziali dall’altro.
Il dipendente si fa carico dell’imposta e di parte dei contributi previdenziali, il datore di lavoro della restante parte dei contributi previdenziali. Ma una sua sforbiciata, annunciata in queste ore in pompa magna dal Governo dei Migliori, non è destinata a incidere sugli stipendi più bassi.
È proprio nella manovra di bilancio che dovrebbe trovare spazio questo taglio del cuneo fiscale. Confindustria che si oppone fieramente all’introduzione di un salario minimo per legge chiede da tempo un taglio di 16 miliardi, per due terzi a favore dei lavoratori (10,7 miliardi) e un terzo delle imprese (5,3 miliardi).
Il beneficio massimo, per una retribuzione da 35 mila euro, sarebbe di 1.835 euro all’anno che al netto delle tasse diventano 795 euro.Ma gli stipendi più bassi non avrebbero, ripetiamo, alcun beneficio. Lo si evince da alcune elaborazioni del centro studi di Confindustria sui dati del ministero dell’Economia.
Chi ha una retribuzione lorda di 7500 euro avrebbe all’anno un beneficio netto di appena 262 euro. Vale a dire pochi spicci al mese. Idem se si sale a 12mila euro di retribuzione lorda annua, quando il beneficio netto sarebbe di 419 euro. La situazione cambia di poco a quota 20mila euro dove il beneficio netto è di 524 euro.
Insomma per avere una boccata di ossigeno dal taglio del cuneo bisogna guadagnare almeno 35mila euro. Ma l’Inps ci dice che quasi un lavoratore dipendente su tre guadagna meno di mille euro al mese e il 23% meno di 780 euro. Numeri che l’Istat conferma indicando che sono 4 milioni i dipendenti del settore privato che non arrivano a 12mila euro lordi l’anno.
Ovvero il 29,5% e dal calcolo sono esclusi settori come l’agricoltura e il lavoro domestico. Per questo esercito di lavoratori poveri solo un salario minimo per legge potrebbe dare qualche giovamento, ma imprese, sindacati e Governo cincischiano con proposte deboli sul reddito minimo e sforbiciate al cuneo fiscale.
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