Di A. Bartolini e D. Milosa per Il Fatto Quotidiano
Ordini, ma anche commenti, discussioni, scenari abbozzati. Dal carcere di San Vittore all’esterno. Niente pizzini, ma banalissimi cellulari fatti entrare con la compiacenza di un agente della polizia penitenziaria. C’è anche questo nel romanzo criminale tratteggiato in quasi duemila pagine di ordinanza di custodia cautelare firmata oggi dal gip Stefania Donadeo su richiesta del pm Marcello Musso. Si tratta dell’operazione Pavone, quarto capitolo di una saga giudiziaria iniziata nel 2009 e terminata oggi con 26 arresti, di cui 5ai domiciliari. Al centro il traffico di droga.
Cocaina, per lo più, che per anni ha inondato le piazze di mezza Lombardia. Perché questo è l’elemento choc che fin da subito emerge dall’inchiesta: una rete criminale composta da diversi batterie. Un elenco zeppo di nomi che mette insieme gli interessi di Cosa nostra e della ‘ndrangheta. In questi anni per ogni indagine chiusa si apriva un altro troncone che ha permesso agli investigatori del Ros di tracciare la mappa dei vicere della cocaina. Spunta così il nome di Guglielmo Fidanzati, boss della coca, morto lo scorso anno e figlio di Gaetano Fidanzati, influente boss del mandamento palermitano dell’Arenella, anche lui deceduto.
Non mancano gli interessi dei boss calabresi in contatto con i vari broker. Tra questi certamente Vincenzo Micchia e Francesco Orazio Desiderato, originario di Vibo Valentia. Desiderato è stato arrestato nell’ottobre 2013 dopo un inseguimento con la polizia lungo la strada statale Barlassina. In auto aveva un chilo di cocaina e tre armi da guerra, tra cui un kalashnikov.
E se da un lato il pubblico ministero Marcello Musso mette in scacco decine di narcos, dall’altro la sua inchiesta restituisce una fotografia rivista e aggiornata del quartiere milanese di Quarto Oggiaro i cui affari criminali sono gestiti dal carcere dal superboss Biagio Crisafulli, detto Dentino. Storia nella storia, dunque. Che mette in fila diversi elementi inediti: la capacità di Crisafulli, in carcere dal 1998, di comandare utilizzando sua moglie e quella del fratello Alessandro come ambasciatrici. Anche per le due donne, Lucia Friolo e Daniela D’Orsi, il gip ha disposto l’arresto ai domiciliari. Mogli in batteria e nuovi assetti di uno dei quartieri a più alta densità criminale. Assetti che letti oggi sembrano poter riscrivere la storia recente del triplice omicidio avvenuto tra il 29 e il 31 ottobre 2013, quando Tonino Benfante, secondo la squadra Mobile di Milano, ha ucciso di sua iniziativa due fratelli Tatone (Emanuele e Pasquale) e un altro pregiudicato della zona. Sul tema emergono colloqui inquietanti che sembrano spostare il movente sui nuovi assetti voluti da Crisafulli. Assetti che si capisce nel 2008 cacciano la batteria di Francesco Castriotta dal quartiere consegnando tutto il potere alla famiglia Tatone che, invece, nei giorni prima dell’arresto di Benfante, veniva descritta come un gruppo famigliare di semplici spacciatori.
Ma questa è un’inchiesta che tanto assomiglia al gioco delle scatole cinesi. Inizia nel 2006 con l’arresto di Gerardo Gadaleta detto il criminale. Gadaleta gestiva il traffico nella zona di San Siro e Forze Armate a Milano. Le sue intercettazioni svelano contatti interessanti. Ad esempio quello con Francesco Castriotta detto Gianco, latitante dal 2010. Si comprende come fino al 2006 Castriotta assieme a un buon gruppo gestiva parte della cocaina a Quarto Oggiaro. Agganciato Castriotta lo si ascolta. E tra le tante conversazioni emerge la notizia che suo fratello assieme ad altri traffica hashish a bordo di barche a vela.
Di gruppo in gruppo si arriva a Mario Salea, altro importante broker in contatto con Franchino Petrelli e con uomini legati ai clan di Buccinasco. Salea a sua volta rifornisce Franco Crisafulli, il terzo fratello che all’epoca si trova in libertà. E lo rimarrà fino al 2009 quando sarà ucciso proprio a Quarto Oggiaro. Castriotta parla tanto. Il narcos dalla bocca larga confida così la decisione di Crisafulli di cacciarlo dal quartiere. Gianco medita vendetta e intanto cerca altri canali. Compare così Vincenzo Micchia e il canale che porta ai Muscatello. Il resto sono migliaia d’intercettazioni e brogliacci, servizi di osservazioni sul posto. Un lavoro immane che Marcello Musso, pubblico ministero tosto e preparato, ha portato avanti in questi anni nonostante lo scetticismo dei suoi superiori. Un magistrato caparbio che alla fine è riuscito in quello dove molti hanno fallito: fotografare la vera rete del traffico in Lombardia.