Cinquanta candeline non sono affatto poche. Specie se poi questi cinquant’anni nemmeno si sentono sulle spalle di un film cult della storia cinematografica italiana. Parliamo de L’Armata Brancaleone, oggi arrivato all’importante traguardo. “Questo è il mio film preferito perchè rappresenta la rottura con una certa idea della storia medievale, fatta di paladini e dame cortesi mentre noi mostravamo la ferocia e l’inciviltà di quell’epoca”. Così Mario Monicelli dieci anni fa, in occasione del restauro, ricordava L’Armata Brancaleone, terzo incasso nella stagione 1966-67, tre Nastri d’argento (Piero Gherardi per i costumi, Carlo Di Palma per la fotografia, Carlo Rustichelli per la musica) e un titolo diventato un modo di dire.
Un modo di dire, però, dinanzi al quale in tanti ci siamo chiesti da dove derivasse. Ed ecco risolto l’arcano. Il nome di Brancaleone veniva da una cronaca antica della Disfida di Barletta. Se il suo cavallo Aquilante (che, Monicelli raccontava, veniva dipinto ogni mattina da un cavallante e ogni sera ripulito perché non soffocasse per la vernice) rimanda, evidentemente, al Ronzinante di Cervantes, molti dei personaggi minori aprono la via agli episodi del filone boccaccesco, dalla casta Matelda di Catherine Spaak alla ninfomane Teodora di Barbara Steele, fino alla vedova nerovestita di Maria Grazia Buccella. Anni dopo Catherine Spaak, che all’epoca ancora parlava poco l’italiano, avrebbe ricordato: “Sul set erano tutti maschilisti. Io ero molto giovane e incerta con l’italiano e sul quel set al 99% maschile, c’era giusto la sarta e la segretaria di edizione, mi accoglievano Gassman, Monicelli e tutti gli altri ogni mattina con parolacce e insulti e io spesso arrossivo e qualche volta ho pure pianto. Poi una volta però, Vittorio mi chiese scusa e diventammo amici”.
Ecco un video con le scene cult dell’indimenticabile successo di Monicelli. Per il resto, che dire: tanti auguri Brancaleone!