Ci tocca ancora la Fornero. Altro che in pensione con 41 anni di contributi

Nuova spunta sul taccuino delle promesse mancate del governo Meloni. L'abolizione della tanto citata riforma Fornero.

Ci tocca ancora la Fornero. Altro che in pensione con 41 anni di contributi

Nuova spunta sul taccuino delle promesse mancate del governo Meloni. L’abolizione della tanto citata riforma Fornero – cavallo di battaglia di Giorgia Meloni e Matteo Salvini in campagna elettorale – non ci sarà. Se ne parla, se tutto va bene, per il 2025.

Nuova spunta sul taccuino delle promesse mancate del governo Meloni. L’abolizione della tanto citata riforma Fornero

Il prossimo 26 giugno riprende il confronto tra governo e sindacati. Sul tavolo la fine di Quota 103, il capitolo giovani e la previdenza integrativa. Ma l’inflazione aumenta l’incertezza all’indecisione: milioni di pensioni dovranno essere rivalutate pesantemente anche l’anno prossimo il che richiede uno sforzo finanziario notevole. Il pensionamento anticipato a 62 anni di età con 41 di contributi, del resto, è una misura che non presenta i costi della quote precedenti stante anche il numero basso degli aventi diritto (circa 44 mila quest’anno).

Servono tra i 10 e i 12 miliardi di euro per la conferma del taglio del cuneo fiscale, più qualche altro miliardo (in parte ricavabile dalla revisione di detrazioni e deduzioni) per la riduzione delle aliquote Irpef da quattro a tre. Per il 2024, quindi, si farà ben poco. L’ipotesi più probabile è una conferma della Quota 103 già messa in campo quest’anno. Vuol dire un’uscita anticipata con 41 anni di contributi, ma solamente con almeno 62 di età. Con una netta restrizione della platea rispetto alla Quota 41.

Guardando al Def di aprile le risorse a disposizione del governo sono poche. Nonostante sia necessario aspettare la Nadef in autunno per avere dati più certi, a oggi sembra difficile trovare le decine di miliardi necessarie solamente per confermare le misure già in campo o comunque promesse come quelle su stipendi e pensioni. Il Def prevede un recupero di 1,5 miliardi di euro attraverso il taglio della spesa dei ministeri: di spending review se ne parla da anni, ma alla fine i soldi così rimediati sono sempre stati pochi.

Poi ci sono i 4 miliardi destinati dal Def, per il 2024, alla riduzione della pressione fiscale. Bisognerà capire come verranno utilizzati, a partire da cuneo fiscale e Irpef. Non basteranno per nessuna delle due misure, figuriamoci per entrambe. Il governo puntava tutto su una crescita più robusta del previsto, per poter recuperare risorse extra da investire nella riforma delle pensioni e negli aumenti di stipendio, sperando anche di introdurre un meccanismo virtuoso che potesse ulteriormente incrementare i consumi.

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I dati dell’Istat di inizio giugno hanno gelato l’esecutivo: per la fine del 2023 e il 2024 la crescita sembra meno alta di quanto speravano Giorgetti e Meloni. Ieri l’ufficio parlamentare di bilancio nel suo rapporto ha specificato come “la stabilità dei saldi programmatici di bilancio presentata nel Def 2023 appare appropriata”. Tuttavia “vanno risolte le incertezze riguardanti l’individuazione di adeguate coperture finanziarie degli interventi che si prospettano”.

“Nell’insieme – si legge – sembrerebbero necessarie cospicue risorse che appare difficile poter reperire senza incidere” sui servizi e sulle politiche sociali. Dalle parti di Palazzo Chigi si vuole evitare il rischio che nei prossimi decenni si manifesti quella che la stessa presidente del Consiglio ha definito “una bomba sociale”.

Ma non sarà facile per Salvini spiegare ai suoi elettori che la riforma che aveva previsto “nei primi giorni di insediamento al governo” rimane lettera morte. Non sarà facile nemmeno per la premier Meloni raccontare che il governo che avrebbe dovuto “liberarsi dai lacci dell’Ue” (disse la leader di Fratelli d’Italia negli ultimi giorni di campagna elettorale) sia nei fatti un campione di austerity.