In Italia, la violenza contro le donne è un problema strutturale, di cui si parla tanto ma su cui si agisce poco. Secondo l’Ocse, quasi una donna su quattro ha subito violenza fisica o sessuale da parte di un partner. Nel nostro Paese, i casi denunciati sono stati 16 ogni 10mila donne nel 2023. Eppure, la rete di protezione è ancora ampiamente insufficiente. I centri antiviolenza (Cav), pilastri fondamentali per offrire supporto e protezione, restano una rarità e, soprattutto, mal distribuiti. A dircelo, con numeri chiari e inappellabili, è un’analisi del think-tank Tortuga, pubblicata su Lavoce.info.
Secondo il rapporto, in Italia ci sono 404 centri antiviolenza, 220 in meno rispetto agli standard minimi stabiliti dalla Convenzione di Istanbul, che richiede un centro ogni 50mila donne sopra i 14 anni. Ma i numeri non raccontano tutto: la distribuzione territoriale è altrettanto problematica. Ad esempio, solo il 15,6% dei comuni nelle isole dispone di un centro a meno di 5 km, contro il 23,2% del Nord-Ovest. In altre parole, una donna vittima di violenza in Sardegna o in Sicilia avrà molte più difficoltà a raggiungere un luogo sicuro rispetto a una che vive in Lombardia o Piemonte.
Centri antiviolenza: un presidio di civiltà dimenticato
Il divario territoriale è ancora più inquietante se si considera che proprio nelle aree con minore copertura i dati indicano una maggiore accettazione della violenza di genere, radicata in norme patriarcali e stereotipi antiquati. Dove il bisogno è più forte, l’offerta è più scarsa. Il centro antiviolenza, però, non è solo un luogo fisico: è un presidio di civiltà. Significa offrire alle donne uno spazio per essere ascoltate, credute e protette. Significa costruire percorsi di uscita dalla violenza che coinvolgano le vittime ma anche l’intero tessuto sociale.
La mancata attenzione verso i Cav è il risultato di una politica miope e frammentata. Negli ultimi anni, i finanziamenti pubblici sono stati irregolari e spesso insufficienti. Anche quando stanziati, arrivano in ritardo o non vengono utilizzati per progetti realmente efficaci. L’assenza di una visione strategica si traduce in un sistema che lascia indietro le donne più vulnerabili, proprio quelle che avrebbero più bisogno di sostegno.
Ma non è solo questione di fondi. La violenza di genere è un fenomeno complesso, che richiede risposte integrate e strutturali. Non basta costruire centri: serve formazione per chi lavora nei servizi pubblici, serve educazione nelle scuole, serve una campagna culturale che scardini gli stereotipi sessisti. Serve una volontà politica che vada oltre le dichiarazioni di rito nei giorni simbolici, perché la violenza non si ferma il 26 novembre.
Nel rapporto di Tortuga emerge anche un altro dato preoccupante: la mancanza di coordinamento tra Stato centrale e amministrazioni locali. Ogni regione agisce come meglio crede, spesso senza una guida chiara o un piano condiviso. Questo approccio frammentato non solo rende inefficiente il sistema, ma crea disuguaglianze territoriali che mettono a rischio il diritto delle donne alla protezione, sancito a livello internazionale.
Politiche frammentate e finanziamenti irregolari: un sistema che lascia indietro le donne
La Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, non è un manifesto: è un impegno vincolante. Eppure, a più di dieci anni dalla sua adozione, il nostro Paese è ancora lontano dagli standard richiesti. Mancano i centri, manca una distribuzione capillare, manca una cultura di prevenzione. Ma soprattutto, manca l’urgenza di affrontare il problema come una priorità nazionale.
Secondo Tortuga, colmare il gap attuale richiederebbe un investimento economico sostenibile. La creazione di 220 nuovi centri rappresenta una spesa che lo Stato potrebbe sostenere, considerando anche i costi sociali ed economici della violenza di genere. Ogni euro speso per prevenire e contrastare la violenza genera un risparmio ben maggiore in termini di spese sanitarie, giudiziarie e sociali. Eppure, questo calcolo sembra sfuggire a chi prende le decisioni.