Da oltre 30 anni l’Italia è alle prese con lo smantellamento delle centrali nucleari. La produzione di energia elettrica dall’atomo, iniziata nel 1963 e conclusa definitivamente nel 1990, tre anni dopo il referendum per dire addio a quelle iniziative ed evitare che potesse ripetersi un disastro come quello di Chernobyl, ha lasciato una pesante eredità e il cosiddetto decommissioning è già costato agli italiani diversi miliardi di euro, tutti caricati sulle bollette elettriche.
Ma il problema non sono soltanto i vecchi impianti di cui si occupa la Sogin, i i cui rifiuti finiranno nel deposito nazionale. Ci sono vere e proprie discariche nucleari in varie zone del Paese, all’interno soprattutto di fabbriche dismesse, pericolose e di difficile bonifica. L’ultima mappatura disponibile ne indica 18, tutte in Lombardia e in particolare in provincia di Brescia, salvo due in Veneto e una in Toscana.
Una piaga poco nota, di cui si è occupata la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati, che ha appena consegnato al Parlamento un rapporto sulla gestione dei rifiuti radioattivi in Italia e sulle attività connesse.
LO STUDIO. La commissione presieduta dal pentastellato Stefano Vignaroli ha effettuato un monitoraggio sul fronte dei rifiuti radioattivi, riscontrando “elementi di preoccupazione” su diverse questioni e specificando di ritenere ciò “sintomo presumibilmente di una scarsa attenzione verso la tematica negli anni passati”. I costi per il decommissioning sono appunto notevoli.
Secondo la Sogin, la società di Stato che gestisce i vecchi impianti, sono anche destinati a crescere, raggiungendo i 7,89 miliardi di euro per arrivare al cosiddetto brown fiel, ovvero allo smantellamento delle vecchie centrali nucleari e al deposito in quei siti dei rifiuti prodotti. Per il prato verde, ovvero la cancellazione di ogni traccia degli impianti, occorrerà invece attendere la realizzazione del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Costi che continuano a sostenere gli utenti. Ma non è tutto.
L’ALTRO FRONTE. In Italia vi sono anche rifiuti radioattivi “derivanti da situazioni anomale o incidentali” verificatesi in industrie che svolgono attività di tipo convenzionale, come ad esempio gli impianti metallurgici. “In dette installazioni – si legge nel rapporto presentato al Parlamento – sorgenti radioattive, della cui presenza non si era consapevoli, hanno provocato situazioni di rilievo radioprotezionistico”. L’assenza di risorse per smaltire tali materiali avrebbe comportato inoltre la “creazione impropria” di depositi di rifiuti radioattivi a tempo indeterminato all’interno delle aree delle stesse imprese. Delle discariche radioattive insomma più o meno incontrollate.
Un inventario nazionale di tali rifiuti è stato pubblicato solo nel gennaio 2020 dall’Isin, l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione, dal quale risulta che l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, nell’ambito del Sistema nazionale protezione ambientale, ha raccolto dati forniti dalle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente sulla presenza di tale tipologia di rifiuti nelle regioni di appartenenza. Spunta così fuori che, ad esempio, circa 55mila metri cubi di tali materiali, corrispondenti a circa 82.500 tonnellate, si trovano nella discarica Capra spa, una ex raffineria nel piccolo Comune di Capriano del Colle, in provincia di Brescia.
Nell’inventario viene quindi specificato, e questo sembra l’aspetto più inquietante, che “le condizioni di stoccaggio di questa tipologia di rifiuti variano dall’utilizzo di contenitori in calcestruzzo o metallici al semplice confinamento in trincee da bonificare”. Ancora: “I valori indicati riguardo le quantità e le attività sono da considerarsi delle stime preliminari, affette da forti incertezze”.
Nel 2019 sono stati poi rilevati pure altri siti industriali con presenza di radionuclidi artificiali, due sempre in Lombardia e uno in Toscana. Il direttore dell’Isin, nella relazione inviata lo scorso anno al Governo, ha sottolineato che per alcuni siti, come la Capra, la ex Cagimetal e la ex Cava Piccinelli, tutti nel bresciano, vi è “un’alta suscettibilità al rischio di contaminazione della falda”. E per le bonifiche mancano fondi e tardano le procedure prefettizie. grana oltre quella delle vecchie centrali nucleari.