Se fino ad ora era solo un’ipotesi investigativa, ora c’è la certezza che i Casamonica sono un clan mafioso. Questo il verdetto emesso, dopo sette ore di interminabile camera di consiglio, dai giudici della del tribunale di Roma al termine del maxi processo nei confronti di 44 imputati. Un dispositivo sterminato, per complessivi 400 anni di reclusione, che per la lettura da parte dei giudici, avvenuta nell’aula bunker di Rebibbia, sono serviti ben 36 minuti.
FAME DI POTERE. Nei confronti degli imputati il procuratore aggiunto della Dda di Roma, Ilaria Calò, e i pubblici ministeri Giovanni Musarò e Stefano Luciani, contestavano un numero esorbitante di reati tra i quali spiccano l’associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, l’estorsione, l’usura e la detenzione illegale di armi. Le pene più alte, comprensive del temuto articolo 416bis, sono state i 30 anni di reclusione inflitti a Domenico Casamonica detto Balù, i 25 anni e 9 mesi disposti per Salvatore Casamonica, i 23 anni e 8 mesi a Pasquale Casamonica, i 20 anni e 6 mesi inflitti per Giuseppe Casamonica detto Bitalo e, infine, i 19 anni e 5 mesi per Massimiliano Casamonica.
Pesante condanna anche per Liliana Casamonica detta Stefania, ossia la donna che ha preso le redini dell’organizzazione quando i fratelli sono finiti in carcere, a cui i giudici hanno inflitto 17 anni e 9 mesi di reclusione. Condanne pesanti che confermano il lavoro della Procura di Roma, guidata dal procuratore Michele Prestipino, secondo cui il clan sinti – nel tempo – ha preso il controllo della parte est della Capitale. Ad accendere un faro sul clan, in modo piuttosto paradossale, è stata la stessa smania di potere che ha sempre contraddistinto i Casamonica.
In particolare l’episodio del funerale del capo clan accompagnato dalla sinistra colonna sonora de Il Padrino che doveva essere un segnale alle organizzazioni rivali operanti nella città eterna ma che si è trasformato nel più classico dei boomerang perché ha finito per attirare l’attenzione dei magistrati sulla cosca romana. Le indagini, confluite in uno sterminato rivolo di processi, sono partite nell’agosto del 2015 quando Debora Cerreoni, ex moglie di Massimiliano Casamonica, ha deciso di abbandonare la roccaforte di Porta Furba per andare in Procura a vuotare il sacco sui loschi affari del clan e sulla loro organizzazione interna.
Rivelazioni decisive che, poco alla volta, hanno trovato conferma nelle indagini consentendo di accertare l’esistenza di un’associazione criminale di stampo mafioso capace di smentire – una volta per tutte – il vecchio adagio secondo cui “a Roma non esistono i clan”. “I Casamonica come possono mantenere il loro tenore di vita? Vi rispondo che di professione fanno i delinquenti”, è con queste parole che la Cerreoni decise, il 28 luglio 2018, di rompere il muro di omertà che proteggeva i cosiddetti “re di Roma”. Un impero che ha prosperato nella parte est della Capitale e che, come riferì la donna, ha visto i Casamonica impegnati a “stringere alleanze con le altre organizzazioni criminali” perché “così dimostrano la propria potenza” criminale.
Insomma un clan che la sindaca Virginia Raggi ha avversato con ogni mezzo tanto che ieri ha ricordato come “in questi anni ho abbattuto le loro ville abusive. Erano lì da decenni. L’ho fatto senza paura, al fianco dei cittadini onesti. Sempre dalla parte della legalità”. Una battaglia costata cara alla sindaca che per questi fatti è costretta a vivere sotto scorta.