Sono stato compagno di squadra di Francesco Totti nelle giovanili della Roma nel 1989/90. Privilegio e soddisfazione immensi. Per questo, ma non solo, sento una grande emozione alla vigilia di quella che sembra essere l’ultima partita di Francesco in giallorosso. Senza troppe pretese, ho deciso di scrivergli queste righe:
Caro Francesco,
voglio cominciare questa lettera urlandoti subito un nome: “Noce!”. Te lo riscrivo, sono sicuro che capirai: “Ah Noce!”. Non so perché, ma fra tutte le cose che potrebbero farmi pensare a te questa è la più istintiva. E la più divertente. Aho, non mi dire che hai rimosso.
Eravamo negli spogliatoi dello stadio Olimpico, anno 1990, nel gruppo selezionato per fare i raccattapalle ai Mondiali. Che sogno essere lì, per noi quattordicenni ubriachi di una felicità di cui nemmeno ci rendevamo conto. Eravamo un gruppetto “esclusivo”, composto da giovani promesse delle giovanili della Roma e della Lazio. Poi, certo, con noi c’erano altri ragazzini che di cognome facevano Montezemolo, Petrucci, Carraro. Ma eravamo troppo estasiati dall’occasione per chiederci che ci facessero lì, non essendo né giovani della Roma né della Lazio. Ora, non mi ricordo come si chiamasse di nome questo Noce, ma ho ancora davanti agli occhi il modo in cui lo avevi preso di mira, coinvolgendo anche me: “Ah Sanso, gridamoje er nome, poi se nasconnemo dietro ‘na colonna”. E così, ogni volta che entravamo nello spogliatoio dell’Olimpico, uno sguardo d’intesa e quell’urlo, “Noce!”, seguito immediatamente dalla nostra fuga dietro a una colonna o nella stanza delle docce. Fino alla resa dei conti finale, si fa per dire. Un giorno ti sedesti vicino a quel ragazzino e gli chiedesti tutto premuroso: “Aho Noce, te vedo triste, ma che hai fatto?”. E lui: “Se becco quello stronzo che grida il mio nome e se nasconne je meno”. A quel punto io e te giù a ridere. Ecco, questo è il ricordo più divertente, che mi viene sempre in mente quando mi capita di raccontare quei due anni, 1989 e 1990, passati con te e tanti altri nella Roma. Arrivammo insieme, per la prima volta in giallorosso, tu proveniente dalla Lodigiani, io da una squadra che si chiamava Eurolimpia. Come dimenticare l’allenatore, Franco Superchi, secondo portiere della mitica Roma dello scudetto del 1983. E quanto contribuì ad alimentare i nostri sogni un personaggio che avevamo già visto un milione di volte sull’album delle figurine.
Quanti pensieri in testa – Chissà se in questi giorni stai pensando a quella tua (nostra) prima squadra in giallorosso. Quel 1989 da cui tutto è partito, noi tredicenni emozionati all’inverosimile. Ti ricordi i tornei di inizio stagione? Scendevamo dal pullman, con la squadra, il mister, e tutti gli occhi erano per noi. I ragazzini delle altre squadre, i loro genitori, gli amici, tutti a guardare noi con la tuta e la borsa della Roma. Quanto orgoglio, solo a pensarci mi vengono i brividi. Che poi mi sono sempre chiesto se sono gli stessi brividi che hai potuto provare tu andando avanti, la prima partita in seria A, la prima in Nazionale, il Roma-Parma dello scudetto 2001, la finale dei Mondiali 2006. Perché, Francesco, a me il cuore sembrava uscire dal petto anche solo quando facevamo la partita infrasettimanale con i giovanissimi regionali all’epoca allenati da mister Carnevale. Certo, sarebbe inutile ricordare che in quel lontano 1989 tu eri già incredibilmente più bravo di tutti. Ricordo che qualche genitore diceva che alla fine non saresti arrivato lontano, perché a 13 anni eri troppo più avanti rispetto agli altri e ti saresti perso per strada. E invece, di anno in anno, diventavi sempre più inarrivabile. Mi viene in mente un torneo che disputammo con la maglia della Roma nello storico campo dei Vigili Urbani. Era la fine della stagione e Superchi, giustamente, fece giocare quelli che durante l’anno erano stati utilizzati di meno. Tu ti sedesti in panchina, con la mente già all’anno successivo. A un certo punto, tra infortuni e sostituzioni, il mister non sapeva più chi fare entrare al posto di un terzino destro che aveva chiesto il cambio. Eri rimasto tu, felice come una Pasqua di disputare quello scampolo di partita in un ruolo non tuo. Così entrasti, partendo da destra. E noi rimanemmo stupefatti constatando come, da quella posizione, ti impadronisti del campo facendo tutti i ruoli messi insieme. Chi ha giocato a calcio, seppur senza raggiungere i tuoi traguardi, lo sa bene cosa c’è dietro quella gioia. Perché quando ti ritrovi il pallone tra i piedi è come essere al centro del mondo, in un’atmosfera sospesa.
Sai che per qualche secondo tutti gli occhi sono su di te e il respiro sembra fermarsi. Di più, perché in quei momenti il pallone sembra proprio il mondo, la stessa forma sferica, e ti balena l’idea di poterlo tirare nella direzione che vuoi. Sei l’artefice di un destino comune. Ora, da quello che capisco domani potrebbe essere la tua ultima partita in giallorosso. E non so davvero immaginare cosa si agiti nella tua mente a questo punto della storia.
Non finisce qui – So però che domenica la mia, la nostra storia, affronterà una curva decisiva. E porca miseria, quel sogno di bambino si riaccende nella mia mente come se non fossero passati quasi trent’anni. Come se domenica dovessimo entrare per un allenamento al Tre Fontane o a Trigoria. Trent’anni, Francesco, ci pensi? Ma come diavolo hanno fatto a passare così velocemente? Questa è la bellezza della vita, di uno sport che è vita, che ne ha succhiata tanta, ma ha lasciato in cambio un grande successo. Il tuo, ma anche il nostro, degli ex compagni di squadra e di tutti i tifosi. Perché ognuno di noi ha continuato a proiettare il suo sogno su di te. E tu ci hai aiutato a realizzarlo.
Caro Francesco, vorrei non finire mai questa lettera, vorrei continuarla fino a domenica e oltre. Vorrei continuare, forse non so nemmeno che cosa. Ma mi rendo conto che questa storia, che di certo non finisce qui, deve correre su altri campi di calcio. Quel sogno che ci ha travolti, a 13 anni, ci ha fatto capire che la vita sarebbe stata comunque un campo di calcio. A volte sei titolare, a volte devi stare in panchina. A volte ti fai un male cane, a volte provi una gioia indescrivibile quando riesci a dare un calcio a quel mondo facendolo arrivare esattamente dove vuoi tu.
Un grande abbraccio,
Stefano