Da una parte la proliferazione di contratti precari dall’altra l’allargamento della fascia di povertà contrastata a fatica persino dal Reddito di cittadinanza. Che in Italia la flessibilità abbia prodotto una precarietà eccessiva e il trend continui anche in questa fase di ripresa ce lo spiega l’Inapp. L’Istituto per l’analisi sulle politiche pubbliche, che ieri ha presentato il suo rapporto annuale, ha rilevato che tra il 2008 e il 2019 i contratti a termine sono cresciuti del 36,3% ma l’occupazione è aumentata solo dell’1,4%.
L’incidenza del lavoro a termine sull’occupazione dipendente – ha spiegato il presidente, Sebastiano Fadda, è passata dal 13,2% del 2008 al 16,9% del 2019. Il Rapporto punta il dito contro le imprese che continuano a scommettere sul lavoro precario. E rileva che il blocco dei licenziamenti nel pieno della pandemia ha tutelato i lavoratori più vulnerabili. La flessibilità nel nostro Paese si traduce così in una sempre maggiore precarietà laddove sono sempre i contratti a termine, part time e di somministrazione a essere scelti dalle aziende.
Nel trimestre marzo-maggio 2021 gli occupati precari sono saliti di 188mila unità mentre gli stabili sono diminuiti di 70mila unità. Le imprese – afferma il Rapporto – “sembrano non scommettere con convinzione sulla ripartenza dopo la crisi imposta dalla pandemia, dove solo il blocco dei licenziamenti ha tutelato di fatto i lavoratori più fragili”. Lo stanziamento dedicato – nel 2020 oltre 8 miliardi di euro – alla misura del Reddito di cittadinanza è notevole, dice invece un rapporto della Caritas, sia se paragonato a quello degli altri Stati europei che rispetto alla precedente prestazione, il Reddito d’Inclusione.
La misura voluta dal M5S ha protetto una rilevante fascia della popolazione dalle conseguenze economiche della pandemia e permette, per la sua generosità, al 57% dei nuclei che lo ricevono, soprattutto famiglie composte da una o due persone, di superare la soglia di povertà. Nonostante questo lo strumento andrebbe perfezionato. Dal Rapporto emerge che solo il 44% dei nuclei poveri fruisce della misura e il 56% – ovviamente – no. Inoltre, i dati disponibili ci dicono che oltre un terzo dei beneficiari del RdC non è povero (i cosiddetti falsi positivi). Ma questo deve spingere a riformare e rafforzare la misura non certo a cancellarla, come vorrebbero le destre e i Renzi di turno.
A confermarlo è il ministro del Lavoro. “Il reddito di cittadinanza è oggetto di critiche, osservazioni, in molti casi strumentali – ha spiegato Andrea Orlando – E’ stato uno strumento utile per gestire la pandemia garantendo al meglio la coesione sociale. Certo è uno strumento migliorabile, vi sono delle storture che devono essere aggiustate, ma con il fine di rafforzare la misura, per farle centrare meglio l’obiettivo che le è assegnato”. Se noi decidessimo domattina di abolirlo – ha concluso il ministro -“torneremmo a essere tra i pochi paesi che non dispongono di uno strumento di contrasto alla povertà”.