Altro che tortura. Per evitare che le mafie continuino a stritolare il Paese, il 41-bis avrebbe bisogno di un’ulteriore stretta e così l’intero circuito dell’alta sicurezza. Vi sono ancora delle falle e sono un pericolo per l’Italia e un inaccettabile regalo ai boss. A sostenerlo, davanti alla Commissione parlamentare antimafia, è stato un magistrato che ha una lunga esperienza in materia, l’ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap e attuale componente del Csm, Sebastiano Ardita (nella foto).
L’AUDIZIONE. L’ex direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è stato audito dal Comitato XXI sul regime carcerario del 41-bis dell’ordinamento penitenziario e sulle modalità di esecuzione della pena intramuraria in alta sicurezza. L’audizione è stata secretata, ma La Notizia è in grado di rivelare il contenuto dell’intervento del magistrato, che sembra smontare notevolmente le polemiche sorte a livello nazionale e internazionale sul carcere duro, sollevate spesso da chi ignora o fa finta di ignorare la specificità italiana in materia di criminalità organizzata.
Ardita ha sottolineato che vi sono ancora criticità, tanto nel 41-bis quanto nell’alta sicurezza, che va rivista la cosiddetta sorveglianza dinamica e ha fatto anche un excursus sulle modifiche introdotte nelle carceri nel corso degli anni, davanti al vero e proprio assalto sferrato allo Stato da parte dei clan, partendo dalla cosiddetta strategia stragista dei corleonesi. Il confronto tra il magistrato e il Comitato è stato di circa un’ora e l’Antimafia ha già programmato una nuova audizione a Palazzo San Macuto.
POLEMICHE STERILI. Partendo dal principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione, per cui “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, senza tenere conto della particolarità dei mafiosi irriducibili e di cosa le mafie abbiano rappresentato e continuino a rappresentare in Italia, c’è chi ha parla di una tortura legalizzata con il 41-bis, definito nel caso di Bernardo Provenzano una vergogna incostituzionale e in quello di Raffaele Cutolo di accanimento. Una norma introdotta nel giugno 1992, dopo le sanguinose stragi di Cosa Nostra, e dopo 30 anni di nuovo sotto attacco. Senza considerare che interrompere i contatti tra i mafiosi finiti in carcere e quelli ancora a piede libero è fondamentale.
Ma le critiche verso tale regime sono state anche di carattere internazionale. Nel 2000 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato infatti l’Italia per aver sottoposto i detenuti del carcere dell’isola di Pianosa a trattamenti inumani e degradanti e non aver condotto indagini penali efficaci ai fini dell’individuazione dei responsabili di tali condotte. Sono state mosse critiche dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti delle Nazioni Unite, dopo diverse visite effettuate presso gli istituti penitenziari italiani, sostenendo che il 41-bis comporta il rischio di esporre i detenuti a lunghi periodi di isolamento, con il pericolo di arrecare loro un grave danno a livello socio-psicologico.
E vi sono state anche pronunce della Corte Costituzionale volte a modificare il regime penitenziario speciale e renderlo compatibile con la normativa internazionale di tutela dei diritti umani. Per Ardita, con un’esperienza di nove anni al timone di un ufficio delicatissimo dell’Amministrazione penitenziaria, la realtà è un’altra e per contrastare efficacemente la mafia è necessaria un’ulteriore stretta.