Ci sono fatti che come colpi di frusta trapassano la pelle, entrano nell’anima e lacerano le nostre convinzioni più profonde. L’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre è uno di questi, e non c’è persona tra chi ha seguito quei momenti che non ricordi il fiato in gola e persino cosa facesse quel giorno prima di incollarsi alla tv. Nella storia più recente del nostro Paese non sono mancati shock simili, tra terremoti, alluvioni e attentati, da Piazza Fontana alla stazione di Bologna. Se però cerchiamo nella memoria l’episodio che più di ogni altro ci ha rubato l’innocenza, come Stato e come cittadini, ecco che due tragedie battono tutto: il sequestro di Aldo Moro e gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Queste ultime due stragi, sull’autostrada all’altezza di Capaci e in via D’Amelio, pur avvenute in momenti diversi, per molti sono ormai un’unica cosa: la sfida più alta della mafia alle istituzioni e la morte degli uomini simbolo della lotta a Cosa nostra. Quel 23 maggio del 1992 non solo la Sicilia vide l’arroganza e la forza di un potere che si sentiva esso stesso Stato.
Tanto si sentiva Stato da dichiarare guerra aperta a un nemico dentro il quale non aveva più motivo di nascondersi. I clan avevano loro leggi, un loro tesoro, un esercito e tanti sudditi. Pure il territorio era marcato, con il sangue dei più di cento morti ammazzati l’anno a Palermo e Catania, nelle stagioni delle guerre di mafia, ma soprattutto con il sacrificio di eroi come il generale Alberto dalla Chiesa, Pio La Torre, Persanti Mattarella e tanti altri martiri per la legalità. Funerali che avevano svegliato le coscienze di intellettuali e di una parte minoritaria della politica locale e nazionale.
Cambio di passo – Niente a che vedere con il cataclisma di emozioni e il fascino della riscossa che travolse la gente comune, i giovani, tutti noi che quel giorno capimmo con un pugno allo stomaco che la guerra alla mafia si può perdere. Per assurdo, ammazzare Falcone e poi Borsellino fu la più grande stronzata della cupola. Le cosche avevano tutto, e sotto sotto anche un inconfessabile appoggio in parte dei ceti più bassi e di quelli più alti della borghesia siciliana. Lo Stato invasore e oppressore che aveva fiaccato la pulsione separatista sedimentata sin dai primi anni dell’unità del Regno d’Italia, i fasci siciliani e poi gli intrighi sotterranei con gli americani negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale, era lo stesso nemico che tassava e non dava opportunità di lavoro alla tanta, troppa, povera gente insaccata nelle periferie ghetto delle grandi città dilatate per l’onda lunga del boom economico. In quei quartieri, che oggi sono gemelli di Scampia a Napoli giusto per citarne uno dei più famigerati, i clan avevano tutta la manovalanza che serviva. E giovani che non avevano altri modelli se non il picciotto che diventava boss. Una ribellione inconsciamente nobile in un contesto dove a scuola non ti insegnavano chi è Che Guevara o Don Bosco, perché a scuola non si andava o si smetteva di andarci prima ancora di finire gli anni dell’obbligo.
L’ultimo regalo – Poi arrivò quel 23 maggio. E la parte diventata debole – non più la mafia ma lo Stato – da quel momento aveva il suo eroe. L’uomo che aveva capito due cose: le mafie si individuano seguendo la strada dei soldi illeciti e si battono mettendo insieme in un’unica indagine tutti i fenomeni criminali. L’intuizione del maxi processo, sostenuta da Antonino Caponnetto, capo del pool antimafia ideato da un altro martire, Rocco Chinnici, fu geniale e per quell’epoca dirompente. In più Falcone aveva una naturale capacità di dialogare con gli studenti e “bucare” la televisione anche locale che in quegli anni iniziava a raccontare diffusamente quanto faceva schifo la mafia. Così Capaci diventò sinonimo di riscossa. L’ultimo regalo di Giovanni e Paolo a un’Italia che senza loro oggi sarebbe più buia.