Una schiera di eserciti pronti a giocarsi il tutto per tutto pur di saldare l’alleanza progressista giallorossa tra M5S e Pd, e chi invece vuole affossarla perché la considera il male assoluto. Nel mezzo del guado Giuseppe Conte ed Enrico Letta, tirati una volta da una parte e una volta dall’altra. Sono tanti in effetti i nomi che un giorno sì e l’altro pure tirano per la giacchetta i due leader. La ragione, manco a dirlo, è quasi sempre da ricondurre in un interesse di parte affinché l’intesa non diventi strutturata, non solo a livello nazionale ma anche a livello locale.
A remare contro tra gli altri non potevano che esserci i due lader dei “partitini” che probabilmente senza intesa col Pd dovrebbe capire come scrivere il loro futuro. Parliamo di Carlo Calenda con Azione e Matteo Renzi con Italia Viva. Entrambi i leader non hanno mai mancato di far intendere il loro totale disprezzo del Movimento. E, con l’occasione, la stima nei confronti del Pd ma se e solo se quest’ultimo non corra insieme ai Cinque stelle. Insomma, una stima “a condizione che”. Nel traino dei contrari all’intesa non si può non menzionare anche una renziana doc come Maria Elena Boschi. Il suo pensiero? Può essere a riguardo sintetizzato in alcune piccate dichiarazioni. Solo qualche giorno fa: “I grillini sono finiti. Italia Viva c’è. A Siena Letta ha vinto grazie a noi”.
Qualcuno spieghi a Boschi e compagni che vincere a Mintoruno e Castelveneto non significa necessariamente “esistere” anche a livello nazionale. Non fosse altro che suona paradossale e grottesco dire che “i grillini sono finiti” in riferimento a un Movimento che viaggia secondo i sondaggi sul 15% mentre la voce si alza da un partito che conta – se va bene – il 2%. C’è da dire, però, che anche all’interno del Pd c’è qualcuno – più di qualcuno – che non vorrebbe poi così tanto stringere un patto di sangue con i pentastellati.
Non è un mistero che per il senatore Andrea Marcucci sarebbe molto più saggio dialogare con Renzi e Calenda che con Conte. Letta è ben consapevole che i dem al proprio interno non sono unitissimi. E, dicono fonti ben informate, il fatto che si sia fatto eleggere a Siena è sì un modo per attestare la sua leadership, ma anche un modo per entrare in un gruppo parlamentare i cui eletti sono stati candidati – è bene ricordarlo – per volere dell’allora segretario, Matteo Renzi. Questo vuol dire che il Movimento non ha nemici in casa? Niente affatto. Un nome su tutti: Alessandro Di Battista. Si dirà: è fuori dal Movimento. Vero. Così com’è vero che non sono pochi i parlamentari e gli attivisti che seguono il “dibattista pensiero” e che dunque sono convinti della necessità che M5S non sigli alcun accordo e torni alle “origini”.
C’È CHI DICE SI’. C’è però ovviamente anche chi lavora da mesi – se non da anni – a rendere strutturale l’alleanza nata col Conte2. A cominciare dai “padri” che da dietro le quinte hanno reso possibile l’allora alleanza di governo. Parliamo di Stefano Patuanelli da una parte e di Goffredo Bettini dall’altra. Tra i pontieri, però, bisogna citare anche Riccardo Ricciardi, altro nome di assoluta fiducia per Conte, ma che sa dialogare anche con volti autorevoli del Pd. Esattamente come Paola Taverna, altra fedelissima, rivoluzionata da come la si ricorderà anni addietro.
Niente più volgarismi, ma un savoir-faire politico che pare aver conquistato Conte e convertito non pochi dem. A spingere però verso un’intesa giallorossa è anche un nome di peso del Pd. Parliamo cioè di Dario Franceschini: il ministro della Cultura, potente uomo di partito vista la rete che ha saputo creare, se ancora non ripone piena fiducia nel Movimento, stima profondamente il suo leader a tal punto da ritenere l’intesa col “nuovo” M5S l’unica vera alternativa all’avanzare delle destre. Una chiave che è condivisa anche da buona parte del mondo a sinistra del Pd. A cominciare da Leu: non solo Roberto Speranza, ma anche Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani sono convinti che il riformismo debba tingersi di giallorosso.