di Vittorio Pezzuto
Le scuse al posto delle dimissioni. Si è conclusa nella maniera più prevedibile la squallida vicenda di un vicepresidente del Senato che, trascinato dall’ebbrezza del palco comiziale, ha offeso gravemente un ministro della Repubblica dandole dell’orango in ragione del colore della sua pelle. Roberto Calderoli ieri mattina nell’aula di Palazzo Madama si è pubblicamente scusato («Con disagio e imbarazzo») con i suoi colleghi e con lo stesso presidente Giorgio Napolitano per le parole «sbagliate e offensive» rivolte al ministro Kyenge. «Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula» ha precisato. «Il mio errore è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive». Copione rispettato, quindi. In un Paese nel quale – a tutti i livelli – la responsabilità del ruolo viene associata soltanto agli onori della retribuzione annua lorda e degli esibendi orpelli dello status ma mai ai suoi pesanti oneri, era francamente da ingenui aspettarsi il gesto rivoluzionario delle dimissioni. Rifiutandosi di darle, Calderoli ha così esibito una fragilità politica che investe peraltro tutta quanta la Lega, un partito che pur di uscire dall’attuale cono d’ombra non ha esitato a sfruttare lo scandalo per provare a mobilitare la sua gente contro l’immigrazione clandestina. Ieri in aula l’esponente leghista è stato inoltre volutamente impreciso. Non è affatto vero che il ministro Kyenge abbia accettato le sue scuse: semplicemente non le ha mai chieste, rifiutandosi di circoscrivere l’episodio entro i perimetri del caso personale. «È arrivato il momento in Italia in cui ognuno deve guardare e capire il ruolo che riveste, l’importanza delle parole e la comunicazione che vuole passare nel paese» spiegava ancora ieri ai giornalisti. «Per me questo è fondamentale, spetta a ciascuno fare le proprie valutazioni». Valutazioni e condanna che ancora ieri mattina venivano espresse senza esitazioni non solo da dirigenti e parlamentari di Pd, Scelta Civica, M5S e Sel ma anche da diversi esponenti del Pdl, alleato storico della Lega.
La Lega parla di polverone
Calderoli ha però tirato dritto, protetto dal benaltrismo dei suoi colleghi di partito. Gente come il vicepresidente dei senatori leghisti Sergio Divina: «Noi abbiamo già archiviato la vicenda. Il tentativo di addossare una responsabilità istituzionale è inverosimile. Spesso nelle feste di partito si viene trascinati e lui è andato sopra le righe. Pur essendosi scusato si è alzato un polverone sulla vicenda che serve a tener in ombra altre questioni scottanti come le polemiche sugli armamenti, in cui il Pd è in bilico tra opposte posizioni, le spaccature dovute a Renzi, e il caso Alfano per la vicenda kazaka. Semmai Enrico Letta la smetta di farci pressioni minacciando ritorsioni su Expo 2015». Una tesi sostenuta dallo stesso segretario Roberto Maroni: «Non ho capito l’uscita di Letta sull’Expo e l’ho chiamato: mi sembra tutto rientrato da parte sua, è stata una scivolata anche se lui è uno attento su queste cose». Frasi che non sono per nulla piaciute al diretto interessato, tanto che Palazzo Chigi faceva trapelare una reazione durissima: «Altro che tutto rientrato! La scivolata è solo quella di un leader che non riesce a far dimettere Calderoli da vicepresidente del Senato. Purtroppo è una carica che non è oggetto di voce di sfiducia, ma così facendo Maroni è correo dell’insulto al ministro Kyenge». Tradotto: lo sdegno rimane ma abbiamo le mani legate.
Agli atti restano quindi solo le lacrime di coccodrillo di Calderoli, la figuraccia di un presidente del Consiglio che lancia ultimatum fragorosi che nessuno si fila e infine una mozione trasversale di sostegno al ministro Kyenge sottoscritta da oltre duecento senatori. Troppo poco per non pensare come questa vicenda sia stata grave ma non seria.