Di Fabrizio Massaro per Il Corriere della Sera
Anche una banale causa di lavoro può contribuire a incrinare un mito. Sta succedendo negli Usa a un’icona del nostro tempo, che tale era già in vita e che ancora di più lo è diventata dopo la morte nel 2011. Il co-fondatore e poi il salvatore di Apple, Steve Jobs, il visionario, l’uomo che aveva come motto «stay hungry, stay foolish» («siate affamati, siate folli»), era — nella parole di uno che lo conosceva bene come Sergey Brin, co-fondatore di Google — «uno che non voleva rotture di c… E credo che tutto gli desse fastidio», a cominciare dalle assunzioni dei suoi dipendenti da parte degli altri colossi di Silicon Valley.
Le testimonianze su come Jobs gestisse i rapporti di lavoro a Cupertino, California, sono così inequivoche che un giudice americano ha respinto venerdì la proposta di transazione da 324,5 milioni di dollari avanzata da Apple, Google, Intel e Adobe per una class action di 64 mila lavoratori che hanno visto la propria carriera ostacolata dai patti anti-assunzioni dei colossi di internet. Dell’accordo clandestino Jobs era l’ispiratore e anche il regolatore senza scrupoli, grazie alla «paura e alla deferenza» che suscitava presso gli altri big della new economy.
Prendiamo Mark Zuckerberg. Ha fondato Facebook. È diventato il trentenne più ricco del pianeta. Ha il dominio sulle identità digitali di 1,3 miliardi di abitanti della Terra. Eppure l’idea non è stata sua. L’ha copiata dai gemelli Cameron e Tyler Winklevoss, che a lui si erano rivolti — quando Zuckerberg era ancora uno studente che smanettava con i computer — per lanciare un sito che mettesse in contatto i ragazzi di Harvard.
Siamo forse lontani dai «robber barons» di fine Ottocento, anche se quando venne fuori per la prima volta la notizia della class action, lo scorso maggio, il New York Times si chiese: «Se fosse ancora vivo, Jobs sarebbe in galera?». In verità le pratiche di concorrenza sleale sono state frequenti nella new economy. Clamorosa fu negli anni Duemila, la contesa con le autorità antitrust americane ed europee della Microsoft allora guidata da Bill Gates, per l’abuso di posizione dominante di Windows che, fra l’altro, ha ucciso di fatto il browser concorrente Netscape e imposto il suo Explorer. Ma Gates ha gettato alle spalle quell’ombra trasformandosi in un benefattore globale.
I comportamenti, più che i fallimenti, dunque possono incidere sui miti, anche quelli più consolidati, considerati intoccabili. Fuori dall’economia è esemplare il declino di Tiger Woods, campione di golf, esempio di successo multietnico (padre afro-americano, madre thailandese) ma sconfitto nell’immagine dopo la scoperta da parte della moglie delle sue oltre centoventi amanti.
Una caduta che Woods pagò economicamente, lui che era arrivato a essere il campione più pagato del mondo, con la perdita di molti sponsor e un ritiro (temporaneo, ora è di nuovo in attività) dalle competizioni. Ma con contraccolpi forse più pesanti sull’immaginario collettivo: addirittura era stata messa in piedi negli Usa un’avventurosa «Prima Chiesa di Tiger Woods», ovviamente chiusa dopo la scoperta dei peccati del suo «messia».
E ora capita a Steve Jobs, con la scoperta delle minacciose mail ai colleghi: «Dai un’occhiata all’asimmetria delle risorse finanziarie delle nostre due compagnie», fu l’avvertimento che diede al ceo di Palm, Ed Colligan, che frenava su un accordo sulle assunzioni perché lo riteneva «oltre che sbagliato, anche probabilmente illegale». La minaccia era di fargli causa sui brevetti. E Jobs poteva trascinarla a lungo quanto voleva.