Non solo il posto di lavoro o i social network. Nella maggior parte dei casi, sono i partner (o gli ex) a rappresentare il rischio maggiore per le donne. “I dati documentano chiaramente che il contesto più pericoloso” per loro “è quello familiare”, è scritto nero su bianco nella relazione finale della commissione parlamentare d’inchiesta sul Femminicidio, istituita l’anno scorso e presieduta dalla senatrice Francesca Puglisi (Pd). “I maltrattamenti in danno di ‘persone della famiglia o comunque convivente’ – spiega il dossier – rappresentano oltre il 48% di tutti i reati riconducibili alla nozione di ‘violenza di genere’. Non a caso sono persone note la maggioranza degli indagati per questo reato, mentre una percentuale molto alta dei procedimenti per violenza sessuale e omicidio rimane a carico di ignoti”.
I dati, del resto, parlano chiaro. Fra il 2013 e il 2016 i maltrattamenti in famiglia denunciati sono aumentati da 13.134 ai 13.567, con un picco di 13.926 nel 2014, mentre quelli sulle donne sono passati da 10.795 a 10.798 col picco di 11.321 nello stesso anno. Mentre per quanto riguardano i delitti veri e propri, “le uccisioni di donne avvengono, il più delle volte, in ambito familiare o comunque relazionale, con autori legati alle vittime da rapporti affettivi, di parentela o di conoscenza”. Il maggior numero di queste (30%) ha più di 64 anni. Il 19% delle donne assassinate ha tra i 35 e 44 anni, il 18% è tra i 45 e i 54. “Quando i maltrattamenti vengono perpetrati dal partner, le donne hanno più paura a denunciare il fatto, soprattutto a livello formale”, spiega a La Notizia la psicoterapeuta e criminologa Margherita Carlini. “Non a caso – aggiunge Carlini – esiste una discrepanza tra il numero di vittime che si rivolgono ai centri antiviolenza e quelle che chiamano in causa le forze dell’ordine”. Il motivo? “Un retaggio culturale forte nel non volere, per paradosso, ‘rovinare’ quello che in alcuni casi è un padre oltreché un marito, e dall’altra il sentirsi per certi versi responsabili della violenza subita”. Di più: “Oggi una donna che denuncia si espone a un rischio maggiore, qualcuna la vive addirittura come un’ulteriore violenza soprattutto se – fa notare la psicoterapeuta – non ha una propria indipendenza economica”.
A fare il paio con questa situazione c’è un fronte legislativo lacunoso, come sottolinea l’organismo parlamentare presieduto da Puglisi. A cominciare dall’assenza di due norme ad hoc: una sul femminicidio, visto che l’attuale legge parla di violenza di genere, e un’altra sull’omicidio di identità col fuoco o con l’acido, come accaduto a Lucia Annibali e Gessica Notaro. “Non c’è solo questo. Per esempio, 6 mesi per denunciare una molestia restano troppo pochi perché la violenza produce delle conseguenze psicologiche che necessitano di tempo per essere ‘metabolizzate’”, spiega Carlini. E ancora: “Vanno indubbiamente riviste anche le norme riguardanti la gestione dei figli. Un marito ‘maltrattante’ può non essere considerato come un padre inidoneo, circostanza che apre evidenti problematiche di sicurezza”, conclude la criminologa. Insomma, una matassa difficile da dipanare.
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